Educatori: il punto di forza di Novo Millennio

La bellezza del lavoro in Alba Chiara è tanta: sono in Novo Millennio da 7 anni e ho scelto di rimanervi perché il suo operato sposa appieno la mia visione di educazione. Alba Chiara ha come obiettivo quello di accompagnare le ragazze nel proprio percorso di vita, in modo che siano in grado di vivere in società in autonomia.

Una buona parte di lavoro educativo è dedicata a far vivere loro la propria adolescenza, una tappa fondamentale della vita, alla scoperta di chi si è e di chi si vuole essere, che troppo spesso le nostre ragazze hanno dovuto un po’ saltare perché cresciute molto in fretta per le situazioni che sono state loro messe davanti.

Un aspetto che secondo me definisce la bellezza del nostro lavoro è che facciamo conoscere alle nostre ospiti delle figure adulte sane. In Alba Chiara, in particolare, lavoriamo sull’aspetto della consapevolezza: la vita è fuori dalla Comunità, quindi certamente si vive insieme e si condivide buona parte della quotidianità, però invitiamo tanto le ragazze anche a vivere esperienze fuori, andare con gli amici, fare sport, fare corsi di disegno, di arte, di equitazione,…

Un aspetto molto positivo per un’operatrice di Novo è proprio quello di sentirsi in una grande famiglia, tutti ti danno una mano quando ce n’è bisogno e quando si può essere utili. L’équipe educativa è il cuore di ogni servizio e ho avuto la fortuna in questi anni di lavorare con colleghi con cui ho condiviso assolutamente i valori e le metodologie educative.

Valeria Autieri – educatrice di Alba Chiara, Comunità residenziale per adolescenti femmine

Il 9 maggio del 2013 ho iniziato a lavorare in Arconauta per una sostituzione di maternità. Quando sono arrivata quello che mi ha colpito veramente era il clima familiare e l’accoglienza che ho ricevuto da tutti.

La cosa molto importante nel nostro lavoro è il tempo che si dedica ad ascoltare e osservare i ragazzi per valorizzarli e per capire quali sono i loro punti di forza e il loro potenziale, in modo da mettere in luce la loro bontà.

Ecco, una cosa che mi piace da sempre è quando facciamo il giro con il pulmino e incontriamo le loro famiglie. Lo facciamo ogni giorno: incontriamo le famiglie, ci scambiamo due chiacchiere e raccontiamo come è andato il figlio o la figlia e cosa ha fatto di bello.

Mi sento emozionata nel pensare un po’ agli anni trascorsi. È un bel posto. Con i ragazzi si sta proprio bene ed è bello vederli diventare grandi dopo un percorso in Arconauta.

Evangelia Kekou – educatrice di Arconauta, Centro diurno per adolescenti e giovani con disabilità.

Io sono Daniela e lavoro in Novo Millennio da ormai 5 anni presso il Centro StellaPolare e nel Progetto Le Case. Prima di lavorare qui avevo svolto un’esperienza differente come educatrice, ma ho voluto provare a sperimentarmi su altri Servizi per trovare nuovi stimoli e un posto diverso che mi permettesse di conoscere le persone, non solo nella quotidianità, ma anche negli aspetti più creativi come permettono le attività svolte in StellaPolare.

Ho scelto questo lavoro perché l’idea di affiancare le persone nel loro percorso di vita mi gratifica e mi dà molti stimoli.

Un aspetto importante è la creazione di una relazione che non è solo educativa, ma si trasforma, perché ci sono delle situazioni strutturate e altre destrutturate, come possono essere un pranzo o un’uscita. Ricordo quando partecipavo agli incontri di Web Radio per conoscere il Territorio oppure incontravo nuovi gruppi di lavoro, magari di altre Cooperative o realtà. La vacanza è un’altra situazione dove ci si mette un po’ a nudo, e questo vale sia per gli operatori che per gli ospiti, ci si conosce proprio su aspetti molto differenti.

Secondo me, un educatore deve avere la capacità di saper ascoltare e quindi la pazienza di “empatizzare”, perché queste sono le cose fondamentali. Non sempre ci si riesce, è un po’ una sfida, però se si trova la chiave giusta si può fare un bel lavoro con la persona.

Novo Millennio cerca di rispondere in modo diretto alle reali esigenze delle persone e del Territorio, realizzando Progetti e Servizi mirati alla costruzione di una Società inclusiva e solidale.

Il lavoro educativo è il cuore pulsante dell’attività sociale e da 20 anni permette di contribuire al raggiungimento di traguardi importanti quali uguaglianza sociale, culturale, solidarietà e inclusione.

Daniela Ghilotti – educatrice di Progetto Le Case, appartamenti di Residenzialità leggera per adulti con storia di disagio psichico e di StellaPolare, Centro diurno per la salute mentale.

Novo Millennio nasce su ispirazione di Caritas Ambrosiana e di Monza per rispondere ai bisogni della Comunità, con l’obiettivo di porsi come collegamento con il Territorio, dando ascolto alle sue necessità. La Cooperativa costruisce luoghi di incontro e di scambio, poiché crede che l’individuo, in quanto parte di una comunità, possa diventare attore di partecipazione sociale e del processo di trasformazione positiva dei rapporti umani. La Cooperativa ha quattro aree di intervento: Area Socio-Educativa, Area Salute mentale, Area Disabilità e Inclusione ed Area Stranieri, a cui corrispondono circa 35 tra Servizi e Progetti. Novo Millennio cerca di rispondere in modo diretto alle reali esigenze delle persone e del Territorio, realizzando Progetti e Servizi mirati alla costruzione di una Società inclusiva e solidale. Il lavoro educativo è il cuore pulsante dell’attività sociale e da 20 anni permette di contribuire al raggiungimento di traguardi importanti quali uguaglianza sociale, culturale, solidarietà e inclusione.

Cercatori di bellezza

Fatica, complessità e continua ricerca, sono state le prime parole emerse nella descrizione e nei racconti dei protagonisti del lavoro educativo, nello specifico degli educatori di EduLab, un centro diurno educativo per adolescenti con fragilità familiari.

Da queste parole, e in questa cornice, ci piace paragonare il lavoro dell’educatore a quello di un cercatore d’oro, un cercatore di bellezza che trascorre la maggior parte del suo tempo con le mani immerse nell’acqua e nella terra, alla ricerca di piccole pepite, di frammenti che, seppur piccoli, diventano preziosi per il progetto di vita del minore.

Ad EduLab l’agire quotidiano, le routine e i gesti ripetitivi che costituiscono la giornata, sono l’effettiva cornice pedagogica che si cerca continuamente di creare, rimodulare e strutturare con un’utenza abituata a vivere senza confini, punti cardine, senza argini. È all’interno di questo dispositivo, che ci piace definire “creativo”, in cui gli educatori cercano di posizionare riti e certezze tra complessità e incertezza, che si può provare l’emozione di un ritrovamento.

Ecco dunque che Claudio, dodicenne con una ‘predilezione’ all’azione istintiva e impulsiva, si affida all’educatrice di riferimento dicendo: “Lui mi sta dando davvero fastidio e so che poi rischio di arrabbiarmi e non controllarmi, ma non voglio rovinare l’amicizia, se mi aiuti glielo diciamo?”; o Eric, inserito a causa di un forte ritiro sociale, durante un incontro con assistente sociale e genitori chiede inaspettatamente di non chiudere il suo percorso al Centro perché: “Sono gli unici giorni in cui vivo”.

Far affiorare quindi particolarità positive spazzate via spesso dal fiume di disagio e di fragilità in cui sono immersi i ragazzi è la vera bellezza del lavoro educativo! Un lavoro fatto di pazienza e dedizione, sì, ma anche di affondi creativi, riti di bellezza e ritrovamenti inaspettati.

Quella della Cooperativa La Sorgente è dal 1984 una storia fatta di storie. Un percorso a tappe, ognuna contrassegnata da tante storie che si intersecano e germogliano producendo nuove fruttuose diramazioni a sostegno dei più fragili.

Anticipiamo fiducia

Per noi tutto serve, ma è solo una persona motivata, un esperto di vita e di amore, un testimone che può convincere un fratello a cambiare modo di esistere“, don Leandro Rossi, Socio Fondatore Cooperativa Sociale Famiglia Nuova

La bellezza del lavoro sociale per noi di Famiglia Nuova si sostanzia nella possibilità che abbiamo di essere riferimento per le persone che accogliamo: lo diventiamo soprattutto quando riusciamo ad anticipare fiducia. L’operatore sociale lavora alla costruzione della relazione d’aiuto, creando presupposti per un rapporto umano reciprocamente fidato, e affidandosi. Deve credere per primo, e convintamente, alla capacità dell’altro di affrancarsi da condizioni di fragilità, senza lasciarsi condizionare da precedenti fallimenti in altri percorsi di recupero, può infatti essere sempre la volta buona e va afferrata al volo, anche quando le “carte” non depongono a favore di un qualche successo.

L’operatore di Famiglia Nuova tiene il fuoco del suo operare sulla persona, non sul sintomo.

In Famiglia Nuova, nell’ambito delle residenzialità, come strumento per il trattamento e la riabilitazione dalle patologie di abuso, dipendenza da sostanze legali e illegali e di forme di dipendenza come il gioco d’azzardo problematico, nei servizi di accoglienza per minori stranieri non accompagnati o per migranti adulti, donne senza fissa dimora, nelle attività di formazione e qualificazione professionale e di accompagnamento al lavoro, le équipe di operatori generano processi relazionali indispensabili per una possibile ridefinizione, sia individuale che sociale dell’utente, attraverso progetti migliorativi della qualità della vita, e la valorizzazione delle risorse, talora residuali, per supportarli ad affrancarsi dalla propria vulnerabilità, implementando le loro competenze personali potenziate da esperienze lavorative e sociali rigenerative.

L’operatore sociale può essere la voce di chi ha perso, o non ha mai saputo chiedere, l’esigibilità dei propri diritti provando a ripristinare, contestualmente, la loro identità di cittadini.

È un lavoro sfidante, che spossa, ma appaga molto. È un insieme continuo di occasioni per trovare un senso profondo in ciò che dobbiamo aver scelto di fare, non si può fare lavoro sociale in modo residuale: accorgerci degli altri, ascoltare i racconti a volte stentati e prolissi, ricchi di informazioni che ci permettono di conoscerci meglio, responsabilizzare le persone che devono essere protagoniste, non comprimarie, delle loro vite, necessita di molta attenzione e passione. Stare con l’altro permette a noi di reggere, se lui sta in piedi sono più forte anch’io. Portare bellezza (il video è qualche riga più in basso) nella vita di persone che hanno vissuto scarto e pregiudizio e brutture di vario genere è prezioso. L’arricchimento che ne deriva accresce l’importanza sociale e spirituale dell’operatore.

I successi, a volte limitati nel lavoro sociale, possono essere entusiasmanti: una casa dignitosa, una stabilizzazione dei rapporti famigliari, un corso di agricoltura sociale che apre a un’attività lavorativa reale, un progetto di recupero dalle dipendenze andato a buon fine che può ricondurre a una certa autonomia, non hanno prezzo di scambio.

Come operatori nel lavoro sociale dobbiamo tendere a questi risultati, anche quando mancano risorse, a volte di ogni tipo.

Operatore

di Giusy Palumbo, da Glossario Fragile, Legacoopsociali, definizione da preferire a educatore, guida, tutor…

La parola spiegata: chi opera, chi compie determinate azioni, chi crea, esegue, fa. Operatore è una parola di movimento, che riconduce sempre ad una dimensione del fare. L’operatore non sta mai fermo, il pensiero sembra escluso in favore del solo agire. C’è una vitalità che seduce, un richiamo all’atto creativo che ci ricorda la lezione di Joseph Beuys per cui “ogni uomo è un artista”. L’operatore interviene sulla realtà, la modifica, la trasforma.

La parola raccontata: la dimensione dell’operare che più ci convince è nella relazione con l’altro. L’operatore nelle cooperative sociali opera con e per l’altro, in termini di accudimento, assistenza, vicinanza, mutualismo. È l’altra faccia dell’utente”, sta nella stessa fragilità, con un ruolo di cura e attenzione, sta a fianco, accompagna, impara.

Operatore è una parola che ci piace, la preferiamo ad educatore, guida o tutor dove la posizione si pone dominante, di un vaso che riversa verso l’altro, perché qui ad operare, in senso più artistico che clinico, si è sempre almeno in due.

E a pensarci bene c’è una parola che basta a restituire tutto il senso: cooperatore.

Rotte di rottura

Quotidianamente, nel mio ondeggiante lavoro educativo, incrocio e attraverso moltissimi volti adolescenti. Volti rivolti talvolta al cielo, talvolta alla terra, talvolta al proprio naso, certe volte alla cerniera delle proprie felpe in cui si incappucciano per sembrare piccoli e invisibili o ancora verso i lacci delle loro scarpe con i quali non si rendono conto di inciampare. Altre volte rivolgo il mio dialogo di sguardi a chi, alzando gli occhi, ricerca la sfida in nome di quell’accanita lotta che lo accompagni a diventare adulto.

Mi imbatto in inesperti soldati corazzati che fingono di saper maneggiare spade e armature, ma così goffi e incapaci di intercettare l’Altro che affrontano adulti che si mostrano draghi, ma che in fondo sanno che sarà uno scontro tra paure. Quelle stesse che poi, lontano dalla polvere della battaglia, occorrerà rimaneggiare e trasformare.

Quella corazza coriacea che, come educatori e operatori sociali, si desidererebbe pugnalare e infrangere subito, ma la cui rottura avviene improvvisamente e non per nostra volontà; assordante e lacerante come tuoni di porte che sbattono, come i pugni supersonici che frantumano pareti, come cellulari le cui comunicazioni vengono volontariamente interrotte da un lancio in lungo il cui fischio continua a riecheggiare; lascia ogni volta attoniti e smarriti.

In quelle crepe interiori e reali ho più volte soggiornato domandandomi quale sentiero percorrere al termine di quell’affannante sosta: ho maledettamente imprecato per l’ennesima anta divelta, per l’ennesimo specchio i cui riflessi sono stati mandati in frantumi, ho obbligato a ripulire, ho punito e rimproverato, ma infine, al termine delle furie, ho finalmente dischiuso il mio sentire all’udire i loro: Cheppalle-che rottura, o qualsiasi loro forma più volgare espressa impulsivamente da tutti questi cavalieri inesistenti.

“Navigo sulle argille di vecchie paure,

da fuori sembro sano,

ma all’interno ogni giorno dentro il mio corpo frano.

I demoni tirano

dal basso, sono tutta creta, neppure una pianta,

un sasso.” (Franco Arminio, 2021, Cedi la strada agli alberi. Tea, Milano.)

A quelle rotture, oggi, a distanza di tentativi, sbagli e anche buone riuscite, vorrei riconsegnare un significato trasformativo e pedagogico provando a dare qualche interpretazione alla domanda in cui ogni volta mi imbatto: che cosa combiniamo con questi cocci che ritroviamo a terra?

La domanda è molto più concreta di ciò che può apparire.

Di fronte ad una sedia in frantumi, ad un buco nel muro, ad un telefono esploso e sfasciato, come ci comportiamo? Ne gettiamo i pezzi? Li lasciamo a terra? La facciamo ripagare e scontato il debito sarà tutto come prima? Li chiudiamo stretti stretti in un sacco nero e passiamo subito al rimprovero o la punizione? Prendiamo la colla trasparente e li ricomponiamo nascondendo ogni traccia di quei frantumi?

In questo marasma di scelta, vale la pena ritornare sulla parola rompere, sulle sue analogie ed usi. Tra i sinonimi di rompere, il dizionario Treccani suggerisce: decomporre – disgregare, scomporre, smembrare, smontare, spaccare. Se affondiamo le radici nel contesto della matematica si parla spesso di far esplodere un problema, per arrivare alla sua risoluzione, nelle relazioni umane quando qualcuno ha ottenuto un successo lo si incoraggia con un Ehi, hai spaccato! – e ancora – quando si desidera ardentemente uscire dai binari prestabiliti e non scelti, si tenta di rompere gli schemi. Quanta energia, desiderio, sogno, sta racchiuso nella distruzione sognante di un bambino di fronte al suo uovo di cioccolato ripieno di qualsivoglia sorpresa?!

Tutto sembra rimandare ad una sorta di riduzione, alla necessità di disossare, di scovare la parte più piccola dell’intero, al ritrovarne radici, all’essenza, al cuore delle cose stesse.

Dissociarsi dall’idea di ogni rottura come pura distruzione, significa scegliere a nostra volta di spezzare quel legame apparentemente inscindibile dell’adolescente arrabbiato che rompe il mondo per il piacere di distruggerlo e avvicinarsi alla necessità di comprendere i significati dei suoi gesti.

Non sarà forse un grido dall’allarme allo struggente bisogno, talvolta, di comprendere e di conoscere, per riorientarsi? Significa aprire orizzonti di crescita per affrontare al meglio la sfida della complessità.

La bellezza del lavoro sociale

“La vita è un arazzo e si ricama giorno dopo giorno
con fili di molti colori,
alcuni grossi e scuri, altri sottili e luminosi, tutti i fili servono.”

Il quaderno di Maya – Isabel Allende

Mille fili che ci legano è una storia di storie, che racconta per immagini un percorso autobiografico collettivo, intrapreso insieme dalle educatrici e dalle donne accolte nelle nostre comunità e nei nostri progetti di avvio all’autonomia.

“Nel nostro laboratorio ci siamo raccontate attraverso fili, intrecci, nodi e ricami ma anche immagini e parole”.

E la fotografa Gaia Bonanomi le ha ritratte in questo reportage.

La Grande Casa scs nasce nel 1989 con l’obiettivo di favorire e promuovere diritti, sostenere e rispettare ogni singolo progetto di vita, favorire l’integrazione sociale e lavorativa delle persone più fragili. Operiamo in favore di donne, minorenni e famiglie, giovani, migranti e comunità locale. È stato un viaggio lungo, ricco di storie, di volti, di riflessioni. Abbiamo più di 30 anni e la voglia di condividere con chi ci ha accompagnato fino a qui, ma anche di rimettere in circolo energie, conoscenza, esperienze. Lasciare che il fermento di tutti questi ingredienti si trasformi nel nostro nuovo punto di partenza.

Pillole di dignità

Il Teatro della Cooperativa in occasione della programmazione dello spettacolo “Ausmerzen” promuove sette brevi incontri per riflettere su alcuni temi legati alla disabilità e all’inclusione sociale. Il Cnca Lombardia partecipa alle Pillole in programma sabato 24 – mercoledì 28 e giovedì 29 febbraio con contributi estratti dal laboratorio “Amori Fragili Amori Negati

Milano, 22 febbraio 2024 – Cento anni fa nasceva a Trieste Franco Basaglia, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia che, con la sua attività, ha ispirato la legge 180/78 che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici nel nostro Paese. Per celebrare questa ricorrenza il Teatro della Cooperativa mette in scena dal 20 febbraio al 3 marzo “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”.

A seguito delle repliche dello spettacolo il Teatro della Cooperativa propone, in collaborazione con Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza (Cnca) della Lombardia e Ledha, “Pillole di dignità”, un ciclo di sette brevi incontri della durata massima di trenta minuti ciascuno per indagare e riflettere su alcuni temi legati alla disabilità e all’inclusione sociale. Il CNCA Lombardia animerà le serate di sabato 24 febbraio – “Mamma, dimmi che cos’è il desiderio” – mercoledì 28 febbraio – “LGBTQIA+ e disabilità” e giovedì 29 febbraio – “Non è amore questo”.

Dal laboratorio promosso dal Cnca “Amori fragili, amori negati” sono nati alcuni spunti di riflessione sui diritti delle persone con fragilità, in particolare per quanto riguarda il diritto alla sessualità e all’affettività e su come superare il tabu del corpo imperfetto che vediamo solo come oggetto di cura e protezione. Nelle diverse serate, Barbara Apuzzo, attrice e persone con disabilità, dialogherà con Giovanni Gaiera, Laura Spoldi, Carlotta Serra e Paolo Cattaneo del Cnca.

Gli incontri successivi, organizzati in collaborazione con altre realtà del terzo settore milanese saranno occasione per riflettere su temi diversi: l’importanza di un linguaggio inclusivo e rispettoso, il rischio di istituzionalizzazione per quanti necessitano elevati livelli di assistenza e la storia del movimento delle persone con disabilità. A concludere il ciclo d’incontri sabato 2 marzo, la proiezione delle fotografie di Gianfranco Falcone, psicologo e attivista, che presenta il progetto “Disability Glam”.

Le repliche di “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute” (durata 70 minuti) sono in programma il martedì, il mercoledì, il venerdì e il sabato alle ore 20. Il giovedì alle 19:30 e domenica alle ore 17.

Per informazioni www.teatrodellacooperativa.it.

Il lavoro educativo attraverso le immagini

La bellezza del mio lavoro l’ho scoperta e vissuta nelle piccole cose di ogni giorno. Alla sera, quando ormai tutto è in silenzio e le luci si spengono entri nelle camere per augurare la buonanotte e vedi qualcuna che è ancora sveglia e pensierosa.

Mi chiede di sedermi accanto a lei e mi racconta che i rapporti con il suo ragazzo in questo periodo sono un po’ faticosi ponendomi anche qualche domanda.

Dentro di me sorgono diversi pensieri: “Perché chiede aiuto proprio a me che ormai sono un’adulta?”. “Perché si sta fidando?”. Fermo le domande in testa e decido di ascoltare le sue parole che racchiudono fatica, tristezza, paure, dubbi e interrogativi.

In quel momento mi rendo conto che non mi sta chiedendo i massimi sistemi o dei trattati filosofici sull’amore. Con molta semplicità e delicatezza provo a rispondere alle sue domande. Mi ringrazia e ci diamo la buonanotte.

Esco dalla camera e mentre mi dirigo verso la mia, ripenso a quanto appena successo e mi accorgo che la semplicità e la relazione sono degli strumenti straordinari. Così, piano piano, giorno dopo giorno, si cresce insieme: loro con te e tu con loro!

Giulia

L’associazione Agathà onlus è nata dall’incontro della passione educativa di due istituzioni della Chiesa di Bergamo: il Patronato San Vincenzo e le Suore Sacramentine. A questa sinergia si aggiunge la Cooperativa Sociale L’impronta che partecipa attivamente alla gestione e allo sviluppo dei progetti dell’associazione. Dal 2011 sono stati avviati progetti e servizi rivolti a minori, neomaggiorenni e donne in difficoltà: la comunità educativa, i progetti diurni di comunità, gli alloggi per l’autonomia e l’housing educativo. Le case di Agathà sono luoghi di protezione, sviluppo e crescita dove le ragazze trovano attenzione e cura ma anche richiesta di impegno.

Tunisicità nella bergamasca

Come operatrice di territorio del progetto SAI per l’inclusione dei Minori Stranieri Non Accompagnati ho la fortuna di cercare e vivere con i ragazzi delle esperienze formative e ricreative sul territorio di Bergamo per trovare insieme a loro possibilità concrete di integrazione e realizzazione dei loro percorsi di crescita ed educativi.

Una fortuna immensa perché nei momenti di svago, gioco, conoscenza di contesti nuovi e messe alla prova da parte dei ragazzi posso assistere ai quei difficili processi di incontro tra persone con background culturali diversi, storie ed età diverse, aspettative e sogni diversi: il momento dell’incontro è criptico, ci si studia, si cerca di capire dove posizionarsi rispetto all’altro e noto che i ragazzi stranieri cercano di capire anche cosa si pensa di loro, quale idea o giudizio ci si fa basandosi sull’apparenza.

Io personalmente trovo affascinante questo studiarsi per capirsi e poi con pazienza forse anche accettarsi e includere (quando l’incontro ha successo!): in quei momenti di incontro capisco quanto sia importante avere il coraggio di mettersi in relazione, a prescindere dalla provenienza, dalla religione, dalla cultura e dal colore della pelle.

Ritrovo la bellezza negli incontri tra il tutore e il minore, due soggetti che imparano a conoscersi e relazionarsi, arrivando a volte a supportarsi a vicenda; la relazione tra il ragazzo e il suo educatore di riferimento è un rapporto generatore di emozioni forti per entrambi, positive o negative che siano, ma sicuramente sincere e con l’obiettivo del sostegno e della cura.

L’incontro tra un ragazzo tunisino e l’anziano bergamasco alla festa di quartiere è un altro esempio di incontro che trovo bellissimo, tramite sguardi scrutanti e poche parole ho assistito a uno scambio spontaneo, basato su un interesse reciproco vero, un momento che mi fa dire che la cura è anche questo: interesse per l’altro, un attimo in cui ci si sente ascoltati, non per forza capiti, quell’attimo sfuggente in cui qualcuno mi vede, non perché sono diverso ma perché sono li di fronte a lui, un allegro e sorridente A. in tutta la sua “tunisicità”.

Più che un lavoro di cura il mio è un percorso da costruire insieme, vedo la bellezza nella reciprocità del rapporto che cerco di costruire con ognuno di loro, i momenti in cui B. riesce a trasmettermi tutta la sua forza e resilienza, le confessioni intime del sensibile K., le risate a crepapelle che mi fa fare O., gli ammonimenti di S. quando non mantengo la posizione formale di operatrice; sono tutti questi momenti che rendono il mio lavoro bellissimo e soddisfacente, nonostante la fatica di tutti i giorni nell’affrontare i problemi legati all’immigrazione nel nostro paese (documenti, possibilità abitative, lavorative,…) sapere che si creano legami, anche brevi, di supporto e cura reciproca mi fa sentire bene e mi fa vedere la bellezza di lavorare nel settore in cui ci si prende cura gli uni degli altri.

Chiara Barcella, educatrice della cooperativa sociale AEPER

Ad AEPER rendiamo concreta la solidarietà realizzando attività educative, sociali, sanitarie, culturali e d’inserimento lavorativo orientate ai bisogni delle persone, alla prevenzione del disagio, all’accoglienza e al reinserimento sociale. Obiettivo è l’inclusione di chi è in situazione di svantaggio nella vita di tutti i giorni, coltivando una cultura capace di valorizzare la persona anche nelle sue fragilità. Promuoviamo l’accoglienza, lo sviluppo, l’autonomia personale, l’integrazione sociale e il benessere nella comunità locale, con particolare attenzione a tutti coloro che vivono la fragilità e il disagio.

Esperienze che raccontano la bellezza del lavoro sociale

Il mio lavoro in comunità inizia circa 3 anni e mezzo fa e si tratta della prima esperienza lavorativa nell’ambito del lavoro sociale.

Ci si confronta ogni giorno con tante realtà diverse ognuna ricca di vissuti ed esperienze personali. Tra queste, fragilità e problematiche da affrontare e da smussare.

La particolarità di questo lavoro sta nel prendere per mano le persone che richiedono aiuto e accompagnarle giorno dopo giorno, passo dopo passo, nel percorso che han deciso di intraprendere. Significa fare in modo che non si sentano sole, fare in modo che sappiano che c’è qualcuno pronto ad ascoltarle e a supportarle: si costruisce un legame di crescita reciproca e di fiducia.

L’educatore non cambia le persone, tanto meno la vita delle persone, non fornisce soluzioni e non risolve i problemi, bensì ascolta, comprende, sostiene, rimprovera, nell’obbiettivo che le persone ritrovino il senso della vita e riescano ad apprezzare la loro esistenza così com’è per poter scrivere nuove storie.

La soddisfazione arriva quando ritrovano speranza e sorriso, quando iniziano a crederci e si rimettono in gioco nella speranza di ritrovare serenità e voglia di vivere in maniera sana e non autodistruggente. È lì che ci si sente realizzati, quando fanno le valigie per tornare a casa, terminato il percorso e, commossi ti abbracciano, ti stringono la mano e, salutandoti, ti dicono “Mi mancherai!”.

Lluvia, 28 anni, operatrice

Maggio 2023

Ho iniziato a lavorare in comunità parecchi anni fa crescendo all’ombra degli insegnamenti di don Redento e del mio primo responsabile. Ho imparato tanto da loro sia a livello professionale che personale, e per questo li ringrazierò sempre nelle mie preghiere che arrivano fin lassù.

Quando qualcuno mi domanda che lavoro svolgo, rispondo che lavoro in una Comunità della Cooperativa di Bessimo, e immancabilmente mi sento rivolgere questa domanda: ma quanti ragazzi “si salvano” dopo aver fatto un percorso comunitario?

Beh, se c’è una cosa che ho capito in tutti questi anni di lavoro a Capo di Ponte è che io educatrice non sono e non mi sentirò mai il salvatore di nessuno.

I ragazzi che si affidano a noi, che imparano a fidarsi di noi, iniziano il loro nuovo cammino di vita. Noi li accompagniamo stando al loro fianco con l’ascolto, con una parola al momento giusto, con un sorriso, con un rimprovero, con un consiglio, con una pacca sulla spalla dopo che hanno pianto pensando al loro passato… Poco importa quanto possa durare il loro percorso, se giorni, mesi o anni. L’importante è che tutte le cose buone imparate o riscoperte in Comunità diventino tesoro da investire giorno dopo giorno.

Quindi ciò che gratifica il mio lavoro di educatrice non è l’essere una ragioniera” che conta chi si salva e chi no dopo essere stato nella nostra Comunità. Ma ciò che veramente ha valore è quel GRAZIE detto con il cuore di chi continua a camminare, questa volta coraggiosamente da solo, al termine del percorso comunitario.

Battistina, operatrice

La mia esperienza nella comunità di Capo di Ponte è stata breve ma intensa!

6 mesi passati a concentrarmi sulle mie fragilità senza farmi deconcentrare dai problemi che la convivenza crea. Ho partecipato attivamente ai gruppi cercando di essere sempre me stesso. Ho creato così dei rapporti che mi hanno consentito di considerare la comunità “Casa Mia”.

Ho trovato molta umanità negli operatori ed un giusto compromesso tra ironia e serietà.

Quindi, ad oggi, mi trovo ad affrontare la vita reale senza quell’inquietudine di fondo che mi ha sempre destabilizzato e fatto ricadere parecchie volte!

Per questi motivi, quando sono in difficoltà, cerco di pescare nella memoria tutti gli insegnamenti o addirittura far due parole telefonicamente. Un abbraccio a tutto lo Staff!

E. B., utente

Da magma sono diventato forma. O almeno, ogni giorno conquisto un pezzo in più di me. Un giorno alla volta, un istante alla volta.

A marzo 2022 ho iniziato questo percorso (dopo che 3 anni prima ne avevo finito uno di 1 anno e mezzo) e sinceramente non sapevo da dove iniziare se non da me. Le parole degli operatori mi dicevano: fidati e tutti i tuoi credo cadranno e ti aiuteremo a ricostruirti come un puzzle. Io ci ho creduto! Non ho mai avuto dubbi (ma quello di credere nel lavoro di professionisti è un mio pregio). Il viaggio non finisce mai.

Ho affrontato la depressione, perché la prospettiva di non riuscire più ad uscire da questo delirio di inesistenza non usciva da me, mi sentivo condannato. E invece no! Sono qui ancora a raccontare che quei rapporti compromessi per la sostanza, se sei astinente si possono recuperare e tenere. La noia si può anche vivere in modo adeguato e le frustrazioni possono anche non mandarci fuori di testa, se prese con le dovute emozioni.

È difficile rendere in parole un cambiamento. Ma so che per renderlo possibile, devo stare lontano dalle droghe e poi tutto il resto è possibile.

La comunità ha vari step: dipende da quanto vuoi veramente superare gli obbiettivi a te proposti. Io li ho voluti affrontare al massimo, pensando che fosse l’ultima spiaggia. Ed è così che ho iniziato a vedere la possibilità di farcela e l’ho afferrata!

F. D., utente

La Cooperativa di Bessimo è una cooperativa sociale che opera dal 1976 prevalentemente nel campo del recupero e reinserimento di soggetti tossicodipendenti. La prima comunità è stata aperta da don Redento Tignonsini, sacerdote bresciano rientrato da sette anni di missione africana, in una casa della parrocchia di Bessimo di Rogno (BG), piccolo comune all’inizio della Valle Camonica da cui la Cooperativa ha preso il nome. La comunità, rivolta inizialmente all’emarginazione giovanile e adulta, si è col tempo indirizzata verso il fenomeno della tossicodipendenza, che prendeva piede in quegli anni nel territorio bresciano.

Costruttori di cultura e comunità

Ho incontrato la cooperativa Il Calabrone partecipando al Servizio Civile Universale, non conoscevo il mondo del sociale dal punto di vista lavorativo, ma dopo un anno qui ho scelto di rimanere perché ho trovato una ricchezza di progetti e azioni innovative, un ambiente di lavoro accogliente, dinamico e stimolante, dove si creano relazioni significative con i colleghi.

Ho scoperto un nuovo modo di lavorare, diverso da quello che immaginavo e per come intendevo io il lavoro. Qui ho capito che le priorità sono le persone, i loro bisogni ed esigenze, il senso delle cose, poi vengono i risultati e gli obiettivi prefissati, quelli si possono sempre rimodulare e ripensare, perché sono proprio i risultati e gli obiettivi che si adattano da persona a persona e non viceversa. Un approccio molto diverso dall’ottica imprenditoriale, ma che per me è il valore aggiunto del nostro lavoro.

Qui al Calabrone mi occupo di orientamento all’Informagiovani. Mi piace il rapporto diretto che riesco ad avere con il singolo ragazzo, soprattutto quando si riesce a coltivarlo nel tempo, creando un punto di riferimento e fiducia. Quel che più mi permette di crescere personalmente e professionalmente è proprio l’incontro di ogni giorno con persone diverse, che provengono da contesti diversi e che portano necessità e bisogni differenti. Questa varietà non ti permette mai di annoiarti, ti fa scoprire e conoscere cose sempre nuove e imparare ad adattarsi a differenti situazioni.

La bellezza del lavorare per le politiche giovanili consiste nello stare a contatto con i giovani e le nuove generazioni: vederli, parlarci e sentire le loro opinioni ti permette di poter dare loro consigli e aiuti concreti, di rimanere aggiornati sulle loro esigenze, aiutarli a trovare le soluzioni migliori per loro. Non diamo risposte ma offriamo contesti e strumenti per l’autonomia, per fare in modo che i giovani trovino la propria strada, con una nuova consapevolezza di sé e di ciò che li circonda.

Nonostante pochi anni d’età di differenza mi rendo conto che c’è bisogno di confronto diretto con loro, perché le visioni sono già molto distanti.

Elisa Baruzzi

I gesti inaspettati ci sorprendono e lasciano il segno

Da quando ero piccola ho sempre saputo che avrei lavorato nell’ambito del sociale, a contatto con le persone, e ho scelto sin da subito un percorso di studi che mi permettesse di realizzare questo mio desiderio.

Ho fatto diverse esperienze: a scuola con la disabilità, poi con le dipendenze e la tutela minori; oggi lavoro nell’ambito della giustizia e sento che è l’ambito in cui desidero lavorare davvero. Per me la giustizia ha un grande valore, sono molto sensibile alle ingiustizie sociali e voglio lavorare affinché si risolvano.

Mi sento una persona fortunata e sento di poter avere un ruolo nel rimettere in circolo questa fortuna, lavorare nel sociale penso sia un modo per farlo. L’ambito che più mi piace della psicologia è quello sociale e di comunità, a cavallo tra il lavoro psicologico e quello educativo. Mi è sempre piaciuta l’idea di lavorare in un gruppo, l’equipe è la mia dimensione: c’è una grande ricchezza di punti di vista sulle persone che incontriamo e la complessità delle persone richiede una complessità di sguardi umani e professionali.

Questo lavoro mi permette di stare a contatto con le storie delle persone che sono l’aspetto per me più significativo nell’ambito del sociale.

Una cosa importante me l’ha insegnata una ragazza che viveva in una comunità per minori. Era conosciuta come poco sincera, inaffidabile e manipolatoria. In un momento di litigio con un altro ragazzo io subito non ho creduto a quel che mi stava dicendo. Quando poi il ragazzo ha ammesso di essere stato lui a provocarla mi sono resa conto di essere rimasta incastrata nei pregiudizi su di lei che, in lacrime, mi ha detto che ero l’ennesima persona che non le credeva. Quello sguardo e quelle parole mi hanno insegnato tanto, è stato un errore che, ancora oggi, mi aiuta a tenere sempre a mente di entrare in relazione con gli altri ogni volta in modo libero e nuovo, cercando di non farmi influenzare da altro se non la relazione che in quel momento si crea. Ammettere di aver sbagliato e chiederle scusa, mi ha permesso di creare con lei una relazione nuova, di fiducia.

Spesso incontro le persone in una fase difficile della loro vita, in cui provengono da vissuti negativi, e nel mio lavoro cerco di creare condizioni affinché avvengano incontri significativi, che possono cambiare l’esistenza delle persone immettendo nuova speranza.

Il lavoro nel sociale è bello anche perché sa sorprenderti, soprattutto se non smetti di credere nella parte migliore di ciascuna persona, anche quando è nascosta. Ho seguito un gruppo di minorenni autori di reato in un percorso sul tema della legalità, un’esperienza sfidante, in particolare, con uno dei ragazzi: molto provocatorio e difficile da ingaggiare nelle nostre proposte. Durante l’incontro finale, davanti alla sua assistente sociale, ha ringraziato me e la mia collega dicendo che: “Ci stava, è stato bello e voi siete state brave perché con noi non è facile, ci vuole pazienza”.

Lavorare con le persone è bello e faticoso, non ti fa mai sentire arrivato: c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e scoprire, non si finisce mai di crescere. È un lavoro di equilibrio che va continuamente costruito: il nostro agire per loro e con loro ha dei confini, noi facciamo delle proposte, creiamo delle occasioni, è poi l’altro a decidere se accoglierle o meno. Questo permette di convivere e superare il senso di impotenza che nasce di fronte alle situazioni complesse, riconoscendo la responsabilità di entrambi: la mia come operatrice, quella dell’altro come protagonista della sua vita.

Erica Serlini

Raccontare il mondo del sociale per ridare valore

Mi piacciono i racconti, le storie, le sfumature di significato delle parole; già ai tempi del liceo scrivevo per il giornalino d’istituto e sognavo di poter continuare a farlo anche nel mio lavoro. Ho studiato scienze della comunicazione con la convinzione che non avrei voluto lavorare per un’azienda e occuparmi di marketing o pubblicità per alimentare il desiderio di acquistare beni anche superflui e incentivare il consumismo sfrenato. Dovevo trovare un’alternativa.

Con il Servizio Civile ho scoperto il mondo delle cooperative e qui ho trovato quel che cercavo: mettere la comunicazione al servizio delle persone e della comunità, per informare, sensibilizzare, far conoscere servizi e progetti utili, per raccontare storie di vita che pochi conoscono perché sono le storie di chi vive ai margini, di chi si trova in condizioni di fragilità, ma soprattutto storie di azioni belle e concrete che aiutano la comunità a crescere, ad avvicinare le persone, risolvere un poco le disuguaglianze e costruire un futuro migliore per tutti.

Quando parlo del mio lavoro mi sento orgogliosa di quel che faccio perché anche se non sono direttamente a contatto con le persone che la cooperativa aiuta è come se il lavoro dei miei colleghi fosse anche un po’ il mio. Ascolto le loro storie, il lavoro che fanno ogni giorno e lo trasformo in un racconto che possa dare valore ai loro gesti, anche quelli che dopo tanti anni per loro sono ormai i più scontati e banali ma che hanno invece ancora un grande impatto.

Non smetto mai di imparare: ogni volta che parlo con un collega che si occupa di un’area diversa scopro qualcosa in più, capisco meglio il loro lavoro e apro il mio sguardo sul mondo, cercando un modo efficace e semplice per comunicarlo a chi non è un addetto ai lavori, traducendo termini tecnici e procedure complicate in una narrazione alla portata di tutti.

È delicato parlare di fragilità e non è sempre facile riuscire a comunicare il valore di ciò che stiamo facendo, ma le parole giuste nella giusta forma hanno la capacità di avere un effetto dirompente e smuovere emozioni e portare a prendere posizione rispetto a dei temi.

Credo che il mio lavoro sia complementare a quello che fanno educatori, psicologi e operatori in cooperativa, serve ad ampliare l’efficacia delle loro azioni attraverso la condivisione di risultati e buone prassi, a far crescere consapevolezza su problemi e difficoltà nel territorio per fare in modo che si creino reti di sostegno e si smuovano ulteriori azioni per dare risposte collettive.

Francesca Bertoglio

Come cooperativa Il Calabrone da sempre lavoriamo accanto alle persone per costruire un futuro desiderabile per tutti, perché la bellezza del lavoro sociale sta proprio nel mettere le persone e i loro bisogno al centro del nostro pensiero e del nostro agire.

Siamo una varietà di professionisti che cooperano ogni giorno per promuovere il bene comune e l’integrazione sociale dei cittadini, con particolare attenzione a chi sta attraversando un periodo di disagio, per promuovere la cultura del prendersi cura dell’altro, dell’accoglienza delle diversità e della giustizia: ingredienti fondamentali per costruire una comunità coesa e solidale.

In un incontro la delicata bellezza di una professione

La giornata è grigia, l’eccezione in un’estate torrida. Quel pomeriggio noi quattro, ciclisti amatoriali, pensiamo solo a pedalare per arrivare alla fine della tappa.

Noto una donna che inizia a sbracciarsi, cercando la nostra attenzione. Si chiama Louise, avrà una sessantina d’anni. Appare tranquilla, ma ha bisogno di aiuto: la ruota posteriore è sgonfia e non riesce a cambiarla.

Decidiamo di darle una mano. In quel momento Louise dice una frase che mi colpisce: “Mercì! Che fortuna! Ho un’intera équipe a disposizione”.

Come un lampo, la parola équipemi ricorda il lavoro educativo che prevede, infatti, una prima scelta importante: fermarsi.

Proprio come accadeva in comunità, quell’ora trascorsa insieme mi ha coinvolta, conducendomi a ricordare l’elemento tipico dell’educatore: il contatto con l’altro.

Quel pomeriggio riusciamo a sistemare la bici di Louise.

Non so onestamente quanta strada Louise abbia fatto una volta che ci siamo salutati. Forse è arrivata fino a casa, forse solo alla tappa successiva. Ma sappiamo che è ripartita, esattamente come noi, e questo non può né deve essere mai considerato un dettaglio.

E quindi alla fine, nella similitudine di quel pomeriggio, il pensiero è stato che il lavoro educativo si esprime con la competenza e, soprattutto, attraverso il più grande amore per l’altro, la cura e la scelta dell’incontro.

La delicata bellezza del lavoro educativo è che questo esprime l‘infinito e l’istante, il gesto e la traiettoria. In poche parole, la vita.

Roberta Sabbatini, operatrice Arché

Fondazione Arché Onlus accompagna i bambini e le famiglie vulnerabili nella costruzione dell’autonomia sociale, abitativa e lavorativa offrendo servizi di supporto e cura. Attraverso l’impegno di volontari e operatori, favorisce la cura dei legami familiari più fragili e lo sviluppo di una comunità più coesa e matura. Perché crede che l’azione del singolo possa contribuire alla realizzazione di una cittadinanza attiva e solidale.