Il viaggio di Elia

Sono responsabile dal 2007 di Casa di Camillo, una struttura residenziale per adolescenti della Cooperativa Sociale Arimo. Gli ospiti che ho seguito da quel momento, con una responsabilità quindi a tutto tondo sul loro percorso educativo, in particolare quelli accolti tra il 2007 e il 2012, hanno oggi una trentina d’anni, e rappresentano un’occasione di grande interesse per riflettere sull’efficacia e sulle criticità del lavoro educativo residenziale.

Qualsiasi evoluzione sia avvenuta nelle loro storie di vita, questi uomini hanno oggi una sufficiente distanza dall’esperienza avuta da ragazzi, tanto da poterla condividere con maggiore lucidità critica. L’intensità di quello che hanno vissuto è tale che occorre un sufficiente distacco emotivo per una giusta rielaborazione. È la stessa cosa che accade in generale per l’adolescenza, una fase di così rapido cambiamento che ogni tentativo di fissarla mentre è in atto diventa una fotografia mossa.

A caldo e nel breve termine dalla loro conclusione, i percorsi dei ragazzi sono sovraccarichi di emozioni, le loro e quelle degli educatori, delle informazioni e delle osservazioni accumulate, dei tanti documenti prodotti a partire dal confronto tra i vari operatori e le diverse professionalità coinvolte; sono gravati dalla forza degli eventi accaduti in comunità o segnalati, che i ragazzi non mancano mai, per natura, di offrire, a sancire tappe e scadenze, fino alla conclusione della loro permanenza in comunità.

Alcuni ospiti – devo dire che negli anni sono stati molti – con i loro tempi e modi ci tengono a mantenere un contatto costante con noi a posteriori. Colpisce il rispetto di ognuno, qualsiasi sia stata la qualità percepita dell’esperienza vissuta in comunità, o il bisogno che sta dietro alla richiesta di ritrovarsi con gli educatori. Non è a mio parere legato a una particolare persona cercata o alla nostalgia per il luogo, credo che sia una forma di accettazione di quanto è accaduto allora, quando vivere la comunità rappresentava un trauma o una fatica, un punto di domanda su sé stessi e sugli adulti. Tornare da noi è un modo di riconoscersi a posteriori e di pensare che quel momento difficile aveva un senso, uno scopo che andava oltre la fatica di doverlo affrontare. Poi l’affetto fa la sua parte, non voglio confonderlo con la gratitudine, non ne sarei affatto lusingato: c’è piuttosto il piacere di riassaporare insieme la condivisione di una parte di vita, del quotidiano, del conflitto e di alcuni momenti di quel tempo così stupido ed eroico che per ognuno è patrimonio di racconti divertenti, memoria di persone oggi lontane, delle proprie scoperte.

Se qualche volta capita di pensare all’esperienza comunitaria come a un ottuso tentativo di “riparazione” di un oggetto di lavoro, ogni storia lo smentisce. Il nostro non è un ostinato tentativo di risoluzione degli odiosi e sanguinanti limiti di quella che non deve essere vista come una macchina in panne, ma come l’organismo più complesso e resistente su questa terra. Un adolescente in difficoltà. È straordinario vedere che questi uomini hanno fatto di loro quel che volevano o potevano, e che il nostro potere limitato risiede in quello che siamo riusciti ad offrire, senza spocchia, cercando di essere generosi e credibili.

Che sia cura o tutela, che siano semplici esperienze nuove e felici o anche strumenti educativi banali ma fondamentali, non importa. La proposta educativa deve essere onesta e alla portata di ciascuno, non uno standard ma una reciproca scoperta. Gli impegni presi reciproci e rigorosi – e devono contemplare margini d’errore e cambiamenti di rotta. Sembra facile a dirsi.

Ognuno di questi uomini che tornano a trovarci mi stupisce, sono felice di riconoscere che spesso non avrei potuto immaginare sviluppi così sorprendenti dei loro percorsi di vita durante il periodo comunitario. Da educatori ipotizziamo successi e pronostichiamo ricadute o recidive, siamo capaci di caricare i ragazzi di aspettative e giudizi. È umano, sono il primo a farlo, ma è un tentativo di interpretazione priva di fondamento, come le previsioni del tempo sul lungo periodo. I ragazzi che accogliamo non possono essere misura del nostro valore professionale espresso con delle prestazioni. È una operazione, questa, che spesso porta al disinvestimento o alla frustrazione. Questi uomini sono i ragazzi di allora, senza tutta quella energia e imprudenza, senza il bisogno di sfidare i grandi o chiederne l’attenzione con gesti impulsivi. Si sono arrangiati, sono maturati e hanno dovuto scegliere e confrontarsi con dure realtà prive di tutela e rimboccarsi le maniche in qualche modo. Mi piace ascoltarli e chiedere di quel tempo, sono curioso.

Ora, con la distanza del tempo trascorso e con gli strumenti che hanno sviluppato, portano delle valutazioni di cui faccio tesoro perché contengono critiche e riconoscimenti più equilibrati, che sono utili per chi esercita un potere così importante, delicato, come quello del lavoro educativo.

Alcuni hanno recuperato stimoli ricevuti e affrontato problematiche allora intoccabili, per immaturità o dolore. Questo mi fa pensare che alcuni obiettivi importanti che vediamo alla portata dei ragazzi che seguiamo, magari lo sono in relazione alle loro capacità ma ancora precoci in rapporto al loro sviluppo personale.

Ci sono, tra questi uomini che tornano a trovarmi, quelli che un tempo sono stati i miei campioni, perché erano abili e svelti, anche nella capacità di adattarsi e di cogliere opportunità, appagando il mio bisogno di vedere risultati. Per esperienza, tuttavia, so bene che le competenze nell’elaborazione di un passato doloroso e nell’investire nel progetto educativo, non sempre corrispondono alla scelta faticosa di confrontarsi davvero con i propri fantasmi. Adeguarsi efficacemente alle richieste della comunità può illudere di riuscire ad evitarli.

Elia, del quale voglio in particolare raccontare qui, fa parte di questi uomini che hanno avuto un percorso nella nostra comunità e che sono rimasti in contatto. Non interessa né è utile parlare qui nello specifico della sua storia di adolescente, perché per alcuni versi somiglia a tante altre, pur con tutte le sue unicità, e, soprattutto, perché so bene che il periodo trascorso con noi è un’esperienza che non può dirci chi è oggi, anche se integrata con il resto, quanto è avvenuto prima e dopo. È di per sé un successo, certo, ma tutto il resto l’ha fatto da solo, scegliendo, cercando una strada, via via maturando quello che è oggi; e anche per lui, di certo, come per ognuno, le possibili future sconfitte comporteranno nuove riflessioni.

Mi interessa invece individuare aspetti della sua storia che possono sembrare ordinari, ma credo ugualmente importanti perché sottolineano il suo desiderio di stare bene e possibilmente sempre meglio, obiettivo di fondo e desiderio che abbiamo per i nostri utenti. Un esempio anche per tutti noi, credo, in questa direzione.

Elia ha accettato la fatica ma rivolta a un obiettivo preciso, senza la rassegnazione ottusa di spenderla male, passivamente. È stato capace di rinunciare alla sicurezza che i nostri limiti e sbagli spesso ci offrono, solo perché le sofferenze conosciute sembrano preferibili a quelle ignote. Ogni volta che in questi anni l’ho rivisto, Elia mi è sembrato onesto nel guardare avanti, con la sana preoccupazione di dover valutare le sue incompetenze per migliorarsi. Mi spiego: per progredire bisogna investire su ciò che non abbiamo.

Come operatore, credo che i ragazzi sappiano bene quanto valiamo, come di quanto siamo mancanti; Elia non dimentica di farmi notare come mi conosca bene, da sempre. Oggi in modo meno provocatorio, e io l’ho sempre ripagato con la stessa sincerità. Certo, quando era un ragazzo avevo la responsabilità enorme di essere per lui un riferimento solido, senza abusare del mio potere per difendermi o confermare il mio ruolo. Credo che gli adolescenti apprezzino, più delle nostre qualità, l’accettazione serena delle nostre mancanze, la sicurezza e correttezza nel contenere e riparare all’impatto degli sbagli inevitabili che facciamo.

Elia sta per fare il giro del mondo in bici, un’impresa romantica, per cui ha lavorato come un asino, un asino coraggioso. Quello che mi piace, ogni volta che mi parla di un suo progetto, è che non ha mai il sapore dell’impresa improvvisata, da sognatore. Mi descrive tutte le possibili difficoltà, le spese, senza sembrare scoraggiato. Non dà per scontato di farcela o che sia facile o solo bello, credo che abbia anche il timore, umano e sottovalutato, di fare una brutta figura.

Fare il giro del mondo è quel genere di impresa affascinante che tutti vorremmo fare, e che rimane una fantasia, diventando un rimpianto. Per mille validi e castranti e autoassolutori motivi.

E il fatto che un mio ospite antico stia mettendo in piedi questa avventura, potrebbe essere occasione di alimentare la solita retorica rassicurante e fasulla che dice: stupido è chi lo stupido fa; in altre parole, il racconto che con l’impegno tutti ce la possono fare.

Le condizioni per realizzare qualcosa di bellissimo e coraggioso sono molte e metterle insieme è un’opportunità rara e alla portata di chi è fortunato, capace, organizzato, coraggioso e ambizioso. Il che non esclude affatto che abbia avuto bisogno di cure, o vissuto momenti di crisi profonda o commesso errori gravi.

Per me è un’opportunità grande di ripensare alle volte che ho creduto che uno dei miei utenti avesse la strada segnata, un invito a considerare il mio parere solo in relazione a quello degli altri, a riconoscermi incerto o incompetente quando inevitabilmente accade. Un ulteriore stimolo ad ascoltare davvero i ragazzi, che non vuol semplicemente dire disporsi all’attenzione ma, piuttosto, non darli per scontati perché, tanto, tutto quello che hanno da dire lo riporteremo alle relazioni, ai reati, alle diagnosi, alle prassi.

E, personalmente, la scelta di Elia di investire in un desiderio grande e farsene carico, mi fa interrogare su quanto io sarei in grado di farlo oggi, con l’obiettivo di non guardare al mio futuro e a me stesso con pregiudizio, o peggio con rassegnazione. Una bella “lezione” a parti invertite.

Luca Natili, responsabile della comunità Casa di Camillo

P.S. Le fotografie sono state scattate da Elia durante i suoi viaggi.

Arimo è una cooperativa sociale fondata nel 2003. Accoglie e accompagna verso l’autonomia lavorativa, abitativa, relazionale, emotiva, adolescenti in difficoltà. Gestisce comunità e appartamenti educativi per neomaggiorenni e per genitori e figli, realizza percorsi per l’inserimento lavorativo e attività di consulenza e formazione pedagogica. Le sue attività sono tutte ispirate dal proposito di rompere il cerchio di un destino già scritto da contesti sociali emarginanti o da esperienze di fallimento e sopruso, per ristabilire diritti e per promuovere nei giovani il senso di responsabilità verso se stessi e verso la comunità.

La bellezza del furgone

Metti un giovedì qualsiasi di novembre. Stai seduta alla scrivania, la faccia dentro il PC. Arriva il corriere sudamericano con i pacchi delle bombolette spray. Indugia mentre scarica gli scatoloni. Non ha fretta, stranamente.

“Io vi conosco”, dice. “Mi avete aiutato qualche anno fa. Sono stato da voi per un po’ di tempo, mi avete aiutato ad avere i documenti in regola e a trovare un lavoro. Lavoravo in un ristorante, mi piaceva. Poi il ristorante ha chiuso per la pandemia e ora lavoro da solo. Non divento ricco, ma ho quello che mi serve per vivere e sono contento. Senza di voi non so se sarebbe andata bene. Vi voglio ringraziare perché avete fatto cose importanti per me e non so che cosa sarebbe successo senza di voi”.

Josè, Salvador. Maschio, di origine straniera, 35 anni circa, un volto qualsiasi dentro un furgone da padroncino. Avrebbe potuto essere chiunque, una delle tante persone che passa dall’ufficio a consegnare cose a caso che servono sempre; una delle tante persone che vediamo parcheggiate con il furgone in settima fila sui marciapiedi, accostati per effettuare le consegne.

Invece Josè aveva qualcosa di diverso: era stato accolto dalla mia cooperativa, proprio da noi.

Uno come tanti che negli anni sono arrivati, migranti sfruttati sul lavoro, senza diritti, senza documenti, quasi senza speranza, ma con molti sogni.

Truffato per potersi regolarizzare, insieme ad altri 12, era arrivato a seguito di un’indagine della Polizia di stato. Vittima di sfruttamento lavorativo, di estorsione e truffa. Perfetto per essere accolto in un programma di protezione sociale.

È il nostro lavoro, quello di tutti i giorni: accogli le persone, le sostieni per poter avere il permesso di soggiorno perché ne hanno diritto, costruisci con loro un pezzetto di futuro. La scuola di italiano, la formazione professionale, i tirocini, la ricerca del lavoro.

Josè ha avuto pazienza, la pazienza di chi vuole realizzare il suo sogno di vita migliore, il desiderio di poter essere felice senza dover chiedere il permesso, senza dover pagare lo scotto di quelli “nati dalla parte sbagliata del mondo”, per i quali sembra che le opportunità debbano sempre essere condizionate dalle volontà di quelli “nati dalla parte giusta del mondo”.

Ha percorso passo passo la strada del suo sogno; ha aderito ad un progetto concreto, fatto di fatica e impegno, a volte di senso di fallimento, a volte di libertà.

Ce l’ha fatta, a modo suo, con le sue risorse e sfruttando le opportunità che gli sono state messe a disposizione.

Non capita spesso che le persone che abbiamo accolto ricompaiano; quando diciamo “a volte ritornano”, non è un bel ritorno; ritornano quelli che non ce la fanno, che trovano ostacoli che non riescono ad affrontare, ritornano quelli che si sentono fallire.

Questa volta il ritorno è felice: “Vi voglio ringraziare, per le cose importanti che avete fatto per me”. Le parole più belle. Le parole che indicano che quello che fai è utile per le persone, che le persone hanno davvero un’opportunità e che la sanno cogliere, che le sanno dare valore. E a volte il valore che hanno supera di molto quello che noi operatori siamo capaci di immaginare.

Una sera mia figlia intervistandomi per un compito di scuola mi ha chiesto che cosa mi piacesse del mio lavoro.

Questo mi piace, le storie come quella di Josè. Sapere che abbiamo dato un’opportunità a delle persone, che quell’opportunità ha cambiato in meglio la vita di qualcuno, che l’ha fatta svoltare. Che questo lavoro ha un senso.

Un senso di futuro, possibilità e bellezza.

Partita dal contrasto ai processi di emarginazione negli anni ’80, Cooperativa Lotta è cresciuta, ha attraversato le sfide e le novità dei cambiamenti sociali e del welfare regionale e nazionale diventando una realtà multiforme che interviene nei settori delle dipendenze e consumi giovanili, salute mentale, disabilità, protagonismo giovanile, vulnerabilità sociale, maltrattamento, infanzia, immigrazione e tratta degli esseri umani, scuola, Hiv, penale minorile, esecuzione penale interna ed esterna. Lavora nelle aree territoriali di Milano, Monza e Brianza, Varese, Sondrio, Como, Brescia e Piacenza, coniugando le sue pratiche di intervento con i bisogni e le culture operative dei territori, reinterpretando in chiave contemporanea la spinta etica e ideale di costruire la possibilità di diritto di cittadinanza delle persone più vulnerabili e fragili e di dare un contributo alle – e con – le giovani generazioni per un mondo più giusto, equo e sostenibile per tutti.

Storia di Gio

Storia – Background

Ho 33 anni, mi sono laureato nel 2011 in Scienze dell’Educazione e lavoro da 10 anni in servizi nell’ambito della tutela minori.

Descrizione del mio ruolo

Educatore: prendersi cura e avere in testa e nel cuore i ragazzi con cui si lavora.

Citazione utile a capire il contesto in cui operiamo

Voglio una casa
(Lucilla Galeazzi, Christina Pluhar, Marco Beasley, Gianluigi Trovesi & L’Arpeggiata)

Voglio una casa, la voglio bella
Piena di luce come una stella
Piena di sole e di fortuna
E sopra il tetto spunti la luna
Piena di riso, piena di pianto
Casa ti sogno, ti sogno tanto

Voglio una casa per i ragazzi
Che non sanno mai dove incontrarsi
E per i vecchi, case capienti
Che possano vivere con i parenti
Case non care, per le famiglie
E che ci nascano figli e figlie

Penso che un servizio diventi di qualità quando riesce ad avere il calore di una casa. Penso che spesso il Centro diurno Millemiglia abbia raggiunto questo calore e questo obiettivo.

Che cosa mi ha reso felice/utile

Per stare molto tempo insieme a quelli che vengono etichettati “ragazzi difficili” bisogna imparare a divertirsi con loro. Fare l’educatore deve essere quindi un lavoro dove ci si diverte nello stare insieme e nell’affrontare le giornate, i mesi e gli anni.

Sono felice e mi sento utile quando inseriscono un ragazzo/a al centro diurno e ci viene presentato come difficile, impossibile, fastidioso, agitato, maleducato, arrogante, approfittatore, ladro, psichiatrico, apatico… E insieme ai miei colleghi si inizia a fare il lavoro degli archeologi che con il pennellino, pian piano, tirano via tutta la sabbia e fanno tornare alla luce i tesori.

I tesori in questo caso sono le qualità e le passioni che ogni ragazzo ha o trova. Quando, per dirla alla De André, si riesce a portare a galla “una goccia di splendore” mi sento felice e utile.

Smisurata preghiera
(Fabrizio De André)

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Col suo marchio speciale di speciale disperazione
E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Per consegnare alla morte una goccia di splendore
Di umanità di verità

Che cosa mi preoccupa di più

Mi preoccupa il cinismo ed il disinteresse verso le altre persone. Mi preoccupa l’eccesso di burocrazia, i giochi di potere che purtroppo mi è capitato di incontrare anche nella tutela minori. L’eccessiva burocratizzazione e gerarchia rischia di creare un universo parallelo che allontana le persone dai problemi e non aiuta ciascuno a prendersi la responsabilità delle proprie azioni.

Penso all’adolescenza come una fase di vita dove spesso si è fragili e vulnerabili.

Un mare in burrasca in cui sarebbe auspicabile avere più salvagenti possibili. Mi preoccupa la famiglia mononucleare che si chiude in sé stessa e la frammentazione della rete sociale perché i primi a pagarne le conseguenze sono i più fragili.

Il mio stato d’animo

Complicato

Una situazione che mi sento di condividere

C’era questo ragazzino, che seguivo a casa da qualche mese, che non vedeva il padre, il nonno e la nonna paterni da 10 anni, da quando la madre aveva litigato con il padre. Durante una passeggiata in bicicletta siamo passati nel parco dove, quando aveva quattro anni, veniva portato dal nonno a giocare. In quell’occasione mi ha parlato per la prima volta del padre e del desiderio che aveva di riallacciare i rapporti. Sono stato vicino a lui in tutto il percorso che lo ha portato al riavvicinamento con il padre e i nonni, al primo incontro con loro, ai pranzi settimanali in famiglia e al saluto quando il ragazzo ha deciso di intraprendere un percorso in comunità.

Una storia che mi sento di raccontare

Una sera della scorsa estate ero alla Conad a fare la spesa. Dietro la mascherina della cassiera vedo due occhi familiari che si illuminano quando mi vedono.

Rimango un po’ perplesso e fatico a capire chi è questa donna riccia che mi sorride. Abbassa la mascherina e mi dice con pesante accento bergamasco: “Te sei il Giovanni Birolini, eri il mio educatore quando ero giù al centro diurno! Ma mi riconosci o no? Sono la Fede”. Adesso me la ricordo, anche se ora avrà 24 anni. Penso a quando ne avevo io 24 e facevo l’educatore a ragazzi poco più giovani di me. Lei però è stata la prima utente che ho salutato: dimessa dal servizio perché dopo 6 anni di centro diurno, 14enne, era stata promossa in terza media e sola con le sue gambe sarebbe andata alle scuole superiori.

È stata la prima storia che nel ruolo di educatore ho fatto mia, ho preso a cuore. Ne sono seguite tante e tante altre, a volte penso troppe.

Ogni tanto prima di addormentarmi faccio il gioco di pensare ai nomi di tutti i ragazzi e ragazze, genitori, colleghi, volontari che ho incontrato in questi anni e un po’ mi spavento. Credo però che difficilmente avrei potuto spendere il mio tempo in modo migliore.

Giovanni

Il Consorzio Famiglie e Accoglienza nasce nel 2013 grazie all’unione di tre cooperative che a tutt’oggi rappresentano il cuore pulsante del Consorzio Fa: FAMille, Cascina Paradiso Fa e Fili Intrecciati Fa. Dal 2018 è entrata a far parte del Consorzio anche la Cooperativa Impresa Sociale Ruah. Offriamo servizi di supporto a bambini e madri con figli in situazioni di fragilità, sostegno a ragazzi disabili e reinserimento lavorativo per persone in difficoltà. La sede centrale è a Brignano Gera d’Adda (BG), dove vengono svolte molte delle attività. Inoltre, grazie alle cooperative e alla fitta rete di associazioni che ne fanno parte, operiamo e siamo presenti in tutto il territorio della Bassa Bergamasca e dintorni.