SOLIDARIETÀ AI RAGAZZI ARRESTATI ALLE PROTESTE PER GAZA

“È un affronto al diritto di manifestare il proprio dissenso

Il centro sociale Lambretta ha organizzato questa mattina una conferenza stampa sull’arresto dei quattro giovani manifestanti durante la protesta a Milano, lo scorso lunedì 22 settembre. Il Cnca Lombardia, plaude l’iniziativa del Lambretta e mostra solidarietà ai ragazzi coinvolti negli arresti, due dei quali sono minorenni. “La loro detenzione è una lesione del diritto di manifestare, del diritto all’istruzione e dei diritti umani”.

Foto di l’Unità

Milano, 26 settembre 2025 – Il centro sociale Lambretta di Milano ha organizzato questa mattina una conferenza stampa, alla presenza di Zerocalcare, Ilaria Cucchi, Luca Blasi, Benedetta Scuderi dalla Global Sumud Flotilla, Giulio Francini, Pietro Cusimano e tanti altri, per commentare lo sciopero indetto dall’Usb lunedì scorso, 22 settembre, e l’arresto dei quattro giovani manifestanti durante la protesta a Milano e, nello specifico, alla stazione Centrale.

Paolo Cattaneo, presidente del Cnca Lombardia, plaude questa iniziativa del Lambretta e mostra solidarietà ai quattro ragazzi coinvolti negli arresti che hanno seguito le proteste, due dei quali sono minorenni, e a tutti i giovani scesi in piazza.

La narrazione che ha seguito la manifestazione ha parlato infatti di violenze e di devastazione, ma per il Cnca Lombardia si è trattato invece di una mobilitazione pacifica, senza precedenti, che ha dimostrato una crescente sensibilità da parte di un bacino sempre più ampio della cittadinanza su ciò che accade a Gaza e nei territori di Cisgiordania occupati, anche grazie alla mobilitazione degli attivisti a bordo delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla.

“Il fatto che questi quattro ragazzi siano stati arrestati e che due di questi, minorenni, ora si ritrovino ai domiciliari, senza la possibilità di andare a scuola, è una lesione del diritto di manifestare, del diritto all’istruzione e dei diritti umani -denuncia Cattaneo-. Ringraziamo tutte le persone che mettono a disposizione i loro corpi in queste occasioni pubbliche per fermare la barbarie che accade a Gaza e nei territori occupati in Palestina e quella che si verifica nel nostro Paese. Un’Italia governata da un sistema che ribadisce sempre di più che l’uso della forza è esclusivo e compete unicamente allo Stato rappresentato dalle sue forze dell’ordine, che non si sono fatte alcuno scrupolo a bloccare a manganellate i ragazzi che cercavano di entrare alla stazione Centrale per fare quello che è stato possibile fare in tutta Italia: l’occupazione simbolica di due binari. Occupazione che è stata resa possibile in tutte le città, Bologna, Roma, Napoli, ma non a Milano, come a voler mostrare una città insicura e non governata, oltre che ribadire un monopolio della forza gratuito, prerogativa solo di Stato e forze di polizia”.

Il timore è che a questi primi arresti ne possano seguire altri, sulla scia di controllo, violenza e impossibilità di manifestare il proprio dissenso, rafforzati dal decreto sicurezza, entrato in vigore a giugno 2025.

Il Cnca Lombardia rifiuta questa logica e propone e sostiene tutti i contenuti portati avanti dalla conferenza stampa di oggi al Lambretta. Ribadendo vicinanza e sostegno ai ragazzi colpiti e al popolo palestinese.

Le proposte di social housing a Milano: “E chi una casa non ce l’ha?”

Lunedì 15 settembre Palazzo Marino ha ospitato l’evento “Emergenza casa. Verso un piano europeo”, in cui stakeholder locali e figure politiche europee hanno affrontato il tema della casa, portando diverse esperienze di social housing in Italia e Europa. L’appello del CNCA Lombardia è di non dimenticare chi è rimasto senza casa e chi da anni attende invano una casa popolare. 

Si è parlato di Milano, di città italiane e di capitali europee; della relazione che deve rafforzarsi tra pubblico e privato; di risorse continue che mancano; smart working; ristrutturazioni e, velatamente, di una finanza che prende il sopravvento su economia e politica. Ma soprattutto, all’evento “Emergenza casa. Verso un piano europeo” organizzato lo scorso lunedì 15 settembre a Palazzo Marino, si è discusso il tema dell’abitare in relazione alle social housing, proposte di residenze a prezzi accessibili per intercettare alcune esigenze di chi le case le abita. Sono state menzionate strutture universitarie per gli studenti, alloggi per i lavoratori e senior housing per promuovere un invecchiamento attivo tra gli anziani. Tutto molto bello e giusto, ma per l’esperienza del CNCA Lombardia il tema dell’emergenza abitativa, in un contesto come quello di Milano, non può essere ridotto all’edilizia sociale. 

“L’housing sociale e l’accompagnamento abitativo hanno un grande valore, però non possono sostituirsi al semplice e puro bisogno di chi una casa proprio non ce l’ha. Pensare di restringere il problema ad anziani, studenti e giovani lavoratori non è realistico”, argomenta Paolo Cattaneo. “È giusto pensare alle social housing, purché queste non sottraggano tutte le risorse all’offerta pubblica”.

Per il presidente del CNCA Lombardia è inoltre difficile immaginare un vero cambiamento nella questione dell’abitare, se non si parte dall’ammettere che a Milano serve uno strappo con quel modello di città che da Expo in poi ha contribuito a creare così tanta disuguaglianza, nascondendosi dietro la retorica del Capoluogo lombardo motore del Paese e centro di attrattività economica, finanziaria e turistica. 

Durante il corso dell’evento numerosi stakeholder locali ed esponenti europei -come il vicepresidente per la coesione della Commissione Europea, Raffaele Fitto, e la presidente commissione hous Parlamento europeo, Irene Tinagli- hanno all’unisono riconosciuto il problema della casa come una questione che riguarda tutti i Paesi d’Europa e non solo l’Italia o, ancora più nel locale, Milano. 

Ma non si può ignorare che il Capoluogo lombardo ha lo stesso numero di abitanti di 15 anni fa, eppure il 60% di questi è cambiato: significa che 600 mila persone sono andate ad abitare fuori, nella maggior parte dei casi per la sua insostenibilità economica. A questo problema si aggiunge quello delle mancanza di abitazioni popolari che, come denunciato da Mattia Gatti, Segretario generale del Sindacato inquilini casa e territorio (SICET) e tra i promotori della contro-manifestazione organizzata nelle stesse ore fuori dal Comune, avrebbero i requisiti per un’abitazione popolare, ma che per via della mancanza di alloggi non riescono a ottenerne una. Basti pensare che ogni anno a Milano 17.000 famiglie presentano domanda di casa popolare, ma solo il 3% la ottiene, mentre più di 10.000 appartamenti restano vuoti perché destinati a vendite o a valorizzazioni. La priorità in questo momento dovrebbe essere dedicata a tutti quei cittadini che, da tempo, non vedono il loro diritto alla casa riconosciuto.

“Una famiglia di origine peruviana con cui abbiamo lavorato si è spostata oltre Magenta perché con l’affitto non ci stavano più dentro. Lì sono riusciti a comprare una casa con i soldi con cui a Milano avrebbero acquistato un box auto. Personalmente” aggiunge Cattaneo, “noi del CNCA Lombardia immaginiamo un modello differente di spazio urbano, che non si pieghi a rincorrere finanza, turismo, persone ricche e influencer; in cui l’abitazione non sia fonte di esclusione o un mero luogo in cui tornare a dormire e dove il discorso sulla casa non riguardi solo la costruzione di edifici, ma comprenda servizi, risorse, relazioni umane e di quartiere”. 

Sala ha aperto la conferenza sollecitando le persone presenti a non affrontare il tema dell’abitare con toni polemici e di conflitto, perché “ogni divisione rappresenta un danno”. Non si può garantire che la versione di città proposta dal sindaco sia quella condivisa da tutti i suoi concittadini, ma l’auspicio è che, al di là della mera narrazione, un modello di città diverso torni a essere una priorità dell’agenda politica del centro sinistra.

La conversione del villaggio olimpico in alloggi popolari sarebbe un bel punto di partenza

Accoglienza e residenzialità dei minori a Milano. Luci e ombre del “passo” del Comune secondo il CNCA Lombardia

Il Comune di Milano prova a cambiare passo nell’offerta residenziale per minori, lo dimostra la pubblicazione a fine luglio di due avvisi con i quali Palazzo Marino è intervenuto in tema di aggiornamento dell’“Elenco di unità di offerta residenziale per minori convenzionate” e di nuovi percorsi sperimentali. Al processo che ha portato alla pubblicazione degli avvisi pubblici ha contribuito in modo determinante anche il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza Lombardia (CNCA), che vuole evidenziare luci e ombre di questo primo, importante, risultato. 

La pubblicazione degli avvisi lo scorso 28 luglio come detto è il frutto di un tavolo di lavoro che ha visto la collaborazione del CNCA Lombardia insieme a 50 organizzazioni del Forum del Terzo Settore -di cui fa parte-, alla Caritas Ambrosiana e al Comune e che riguarda centri e comunità educative destinate a bambini e ragazzi soli, oltre che nuclei familiari genitori-figli.  

Alcuni dati di contesto aiutano a comprendere l’importanza di questo passaggio. Al 31 dicembre 2024 il Comune di Milano accoglieva 1.735 minori, di cui 427 erano stranieri non accompagnati (Msna), più della metà under 14, e oltre 373 titolari di protezione internazionale e ospitati in strutture del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI).

Da tempo il CNCA -federazione che raggruppa al suo interno 45 organizzazioni di cui diverse strutture d’accoglienza- si batte affinché il Comune di Milano riconosca una retta diversa dagli odierni 92 euro al giorno per minore nelle comunità educative convenzionate. Cifra che scende a 86,50 euro in quelle dell’hinterland. Rette troppo basse per permettere alle organizzazioni di garantire un servizio sostenibile e di affrontare perciò i costi legati dell’accoglienza, che includono ad esempio il pagamento dei beni essenziali per i residenti, i salari di operatori (almeno uno ogni cinque accolti) e personale socio-sanitario, la formazione e i costi di struttura.

Con la pubblicazione di questi nuovi due avvisi il Comune ha accolto parte delle richieste avanzate dalle organizzazioni, rideterminando al rialzo la tariffa per minore -con riferimento alle comunità educative- a 124 euro. In aggiunta, è stata accolta la richiesta di non applicare differenze di retta tra le strutture convenzionate che si trovano a Milano città e quelle nei Comuni limitrofi e di garantire la stessa tariffa anche ai fratelli dei minori ospitati, mentre prima nelle strutture che accolgono anche i genitori, al secondo figlio era garantito solo tra il 15 e il 20% della retta del primo.

“Siamo soddisfatti per gli avvisi pubblicati e per il riconoscimento che è stato finalmente prestato al lavoro sociale –commenta Paolo Cattaneo, presidente del CNCA Lombardia-. In questi mesi il Comune ha dimostrato ascolto e l’intenzione di iniziare una collaborazione continuativa per ripensare insieme il sistema di accoglienza residenziale”. 

Il CNCA segnala luci e ombre di questo passaggio.

Iniziamo dalle luci: la prima, senza dubbio, sta nel riconoscimento del lavoro sociale attraverso un adeguamento delle rette che prima erano scandalosamente basse. Poi c’è l’ascolto dimostrato (finalmente) dal Comune con la promessa di continuare questo cantiere di costruzione sociale anche dopo la pubblicazione degli avvisi aperti. A dimostrazione di questa volontà di costruire insieme va sottolineata anche l’introduzione di sperimentazioni innovative, come ad esempio nel campo dei minori stranieri non accompagnati, a fronte di scelte nazionali di accoglienza che vanno nella direzione opposta, nel segno della discriminazione e della segregazione. 

Riconoscendo gli aspetti positivi, non si possono però tacere alcune ombre: i 124 euro di retta rideterminata per quanto riguarda le comunità educative per minori rappresentano una cifra ancora insufficiente a garantire un servizio sostenibile, che dovrebbe invece partire da una base di 145 euro a persona. Basti pensare che con le rette attuali ogni anno le organizzazioni sono esposte, facendo una media meramente indicativa, per circa 70.000 euro. In aggiunta, il CNCA Lombardia non può non far osservare che negli ultimi 20 giorni di un percorso durato oltre un anno sono state inserite due tipologie di unità di offerta sperimentale non discusse in precedenza, di cui una comunità educativa per minori con pronto intervento sociale per 16-20enni, che a queste condizioni sembrerebbero in contrasto con quanto previsto dalla normativa regionale, ad esempio rispetto al numero di presenze di operatori a fronte dei ragazzi ospitati. Uno scivolamento problematico che richiede la messa in campo di un sistema di controllo e monitoraggio che per le unità di offerta sperimentali non può essere agito dall’ATS e che dunque deve essere garantito dal Comune di Milano. Sarà impegno del CNCA e del Forum Terzo Settore verificare che ciò avvenga.

Lavoro sociale e lavoro educativo: change makers in poor jobs

Abbiamo chiesto il permesso di sbirciare e pubblicare gli appunti su cui Paolo Cattaneo, presidente della federazione lombarda del Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti, si è appoggiato per intervenire all’incontro “Lavoro sociale e lavoro educativo: change makers in poor jobs” organizzato da Alleanza Verdi e Sinistra, che potete visionare qua.

Il cambio del nome da Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza a Coordinamento Nazionale Comunità Accoglienti sancisce un cambio di sguardo dal passato al futuro, da quello che abbiamo fatto a quello che desideriamo essere.

La nostra identità è in continua evoluzione come tutte: quelle degli adolescenti, delle persone migranti, dei bimbi che crescono e delle persone adulte che divengono anziane.

Porto tre titoli per parlare di lavoro sociale come lavoro povero ma anche come lavoro educativo.

  1. La dignità del lavoro sociale
  • Lavoro sociale come gesto politico ad alta professionalità che combina le competenze all’umanità e ad una dimensione etico-identitaria
  • Lavoro sociale che è lavoro povero. Lo scarto tra competenze, tempi, carichi e il mancato riconoscimento sociale ed economico. Come portare le pubbliche amministrazioni ad andare oltre la richiesta prestazionale?
  • La nostra funzione pubblica, che si esercita senza assumere la delega della cura e della fragilità, ma essere in grado di renderla questione politica e collettiva (creare luoghi di prossimità; curare le relazioni, il territorio e l’ambiente). Da corpo sociale a corpi nel sociale.
  1. Le sfide
  • Culturale e politica. Non siamo noi il sociale, il sociale è la vita della gente, è lo spazio collettivo. Rompere i recinti professionali e tematici. Cura delle relazioni, dei beni, dei luoghi e dell’ambiente. Sguardi dal Sud è il titolo di una delle nostre traiettorie nazionali: il sud del mondo ma anche le periferie, le aree interne, il rapporto tra generi
  • Sfida del lavoro sociale. La dignità, la democrazia organizzativa, il protagonismo delle persone, la rigenerazione urbana, il riuso, l’ambiente. Questo è quanto sta dentro le nostre organizzazioni.
  • La tutela dei diritti. Il contrasto alle ingiustizie, al razzismo. Fare movimento insieme ad altri soggetti diversi.
  • Questione giovanile. Emigrazione dal sud, ricambio generazionale, tema della formazione e dell’ascolto dei mondi giovanili.
  1. Adolescenti e giovani

Agiti violenti, manifestazioni di odio, crisi di panico, ansia, ritiro sociale sono tutte manifestazioni del disagio adulto più ancora che del mondo giovanile.

Una condizione generata dalla richiesta sociale e culturale di ipercompetitività (no limits) e iperindividualismo (Netflix). Un mondo che fa riferimento a risorse illimitate/insostenibili.

Le dita di una mano che percepiscono il calore di una fiamma: questo sono i giovani che ci stanno allertando perché sono proiettati nel futuro e quindi percepiscono le lacerazioni e chiedono no competition, il diritto a stare male, il tempo liberato, la vicinanza fisica, il dissenso nelle piazze e il dissenso nel silenzio, nell’assenza.

“Siamo state partorite dai nostri figli”, dicevano le madri di Plaza de Mayo.

“Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce” è invece attribuito a Lao Tsu.

Per chiudere propongo tre indicazioni e impegni per Alleanza Verdi e Sinistra:

  • L’adeguamento delle tariffe all’aumento contrattuale che le nostre realtà applicano da febbraio 2024 e che vedrà l’ultima tranche di aumento ad ottobre 2025 per un totale di circa 13% di aumento del costo del lavoro che cade tutto su di noi.
  • Proseguire e migliorare nella costruzione di percorsi condivisi e coprogettati con una attenzione particolare a valorizzare il nostro sguardo che sta dentro i territori e lontano dai palazzi.
  • Proprio per questo valorizzare il radicamento territoriale delle nostre realtà, tenendo alla larga imprese che contribuiscono a costruire politiche segregazioniste e dannatamente pericolose come sta facendo e conta di fare MediHospes a cui il Comune di Milano ha inopinatamente assegnato da ormai 4 anni la gestione di Casa Jannacci.

Se poi nel frattempo si aprisse qualche piscina avremmo un po’ refrigerio per questa e le prossime estati bollenti che ci attendono.

Da un’esperienza educativa a una responsabilizzante

APS I Tetragonauti è un’associazione formata da un gruppo di persone, professionisti e volontari, con competenze e titoli curricolari in ambito educativo pedagogico ed esperienza marinaresca. Scopo dell’Associazione è realizzare interventi e progetti socio-educativi rivolti a minori in situazione di disagio, di difficoltà e a persone con disabilità: singoli, gruppi e istituzioni che a vario titolo si occupino di problematiche ad essi attinenti.

Reti che si rinnovano per aiutare Marco a immaginare un futuro diverso

“Avevo provato un progetto in un maneggio, ma fare tutti i giorni quindici chilometri in bicicletta sotto il sole estivo era un problema, e poi ero terrorizzato dai cavalli, non ne avevo mai visto uno prima. Allora ho provato con i “100 giorni” in mare“, ma non ci avevo riposto tanta speranza. Pensavo: perché in tutta Italia dovrebbero accettare proprio me?”.

A parlare è Marco (n.d.: nome di fantasia), un ragazzo proveniente dal circuito penale minorile, alle spalle una storia familiare e personale travagliata e il desiderio di guardare al futuro con una nuova prospettiva. Si riferisce all’esperienza socio-educativa di tre mesi in barca a vela per adolescenti con un passato difficile organizzata da I Tetragonauti A.P.S., a cui lui ha partecipato grazie al progetto “A scuola per mare”, co-finanziato da Con i Bambini Impresa Sociale. Francesca, psicologa di Centro Koros A.P.S., associazione di Catania e partner di progetto, spiega come Marco è stato selezionato. 

“Marco ha origini straniere, proviene da un piccolo paesino in provincia di Palermo, un contesto di estrema povertà educativa e aveva commesso dei piccoli reati. Per questo l’Ufficio Servizi Sociali Minori ce lo aveva segnalato. Di solito cerchiamo di conoscere a fondo i ragazzi, gli educatori de I Tetragonauti vengono sul territorio e facciamo due mesi di preparazione per avvicinarli all’esperienza. In questo caso non c’è stato il tempo, quindi abbiamo chiesto consiglio alla direttrice del centro professionale per elettricisti che Marco stava frequentando e lei ci ha assicurato che nell’ultimo anno Marco era molto cambiato”.

È la storia, questa, di una collaborazione tra vari servizi di welfare e associazioni socio-educative che operano in diversi contesti sul territorio nazionale e che hanno lavorato assieme per dare una nuova prospettiva di vita a Marco.

“Arrivava da un territorio senza stimoli ed era consapevole che il suo problema principale era proprio il suo paese. Aveva voglia di scappare, ma non aveva mai avuto gli strumenti per farlo, né per immaginarsi un futuro diverso”, racconta Agnese, educatrice de I Tetragonauti.

Quando con Francesca (Centro Koros) dalla Sicilia ha preso prima il treno e poi l’aereo, per lui tutto è stato una prima volta. Parlava solo in dialetto, ma dopo una settimana in barca si relazionava già in italiano (ma anche in romano, ricorda Francesca) con gli altri ragazzi dell’equipaggio.

Quando è salito a bordo non sapeva nuotare, all’inizio nemmeno provava a fare il bagno ed era a disagio quando c’era bel tempo, poi lo ha fatto prima col salvagente, poi con la muta… Dopodiché ha iniziato un corso di immersione conseguendo il brevetto OVD.

Si è reso conto così che anche le cose che non conosceva potevano essere affascinanti. Non aveva mai letto un libro, ma sulla Lady Lauren, la barca de I Tetragonauti, c’è una piccola biblioteca e partendo dai libri per bambini ha iniziato a leggere, arrivando a pensare che “i libri sono come la droga, quando inizi non riesci più a smettere”.

“La più grande sfida dei 100 giorni – ricorda lui – è stata non fumare canne. Smettere di punto in bianco è stato difficile, ma mi ha aiutato che in barca c’è sempre qualcosa da fare per tenersi in movimento, anche solo cambiare il sapone nel bagno”.

Gli operatori de I Tetragonauti e di Centro Koros ricordano quanto fossero preoccupati per il suo ritorno in Sicilia. Inizialmente aveva ripreso ad andare a scuola e spesso aiutava il padre della sua nuova ragazza lavorando come barman. “Questo lo aiutava a non ubriacarsi” dice Francesca, “e ad immaginarsi nel mondo del lavoro”, spiega Agnese: “La sua difficoltà era accettare che il lavoro potesse essere anche faticoso, per questo in passato lo hanno affascinato attività magari illegali, ma poco affaticanti”.

Dopo qualche mese dal suo ritorno a casa Marco ha manifestato nuovamente il desiderio di lasciare la Sicilia e una nuova rete si è messa in moto per proporgli una nuova esperienza, più responsabilizzante, in occasione dell’ultima parte della sua messa alla prova da minorenne. La collaborazione decennale tra I Tetragonauti e Centro Koros ha permesso loro di pensare per Marco a un progetto individualizzato, con un calendario ben definito. 

Durante i 100 giorni di navigazione Marco aveva avuto modo di sviluppare una curiosità per il mondo della nautica, mettendosi a disposizione del comandante e cercando video su YouTube nell’ora in cui era permesso utilizzare il cellulare. In occasione della sua messa alla prova avrebbe continuato a nutrire questo interesse lavorando, durante la settimana in un cantiere nautico e svolgendo attività ricreative con i volontari de I Tetragonauti nel week-end.

Dopo le prime reticenze Marco ha colto l’opportunità. Oggi spiega che rispetto ai “cento giorni” la difficoltà più grande è stata per lui non avere più un educatore che ti dice, per esempio, di non bere. “Prima avevo dei limiti – dice – mentre ora cerco di tenere da solo dei limiti mentali”.

Oggi Marco cerca ancora di autogestirsi, perché grazie al successo dell’iniziativa, una volta terminata la messa alla prova per i reati commessi da minore, si è deciso di replicare la proposta per una nuova messa alla prova adulti per reati commessi prima di iniziare il suo percorso di navigazione. Koros e I Tetragonauti hanno quindi collaborato questa volta sia con UDEPE (l’Ufficio esecuzione generale esterna per adulti), che ha convalidato il progetto, sia con La Nave di Carta A.P.S., partner storico del territorio di La Spezia. 

Il mio obiettivo in cantiere è imparare più cose possibili – spiega – come si cambia un rubinetto, come funziona una barca, i vari tipi di vela, i nodi, ci sta un po’ di tutto… qui un po’ da tutti c’è da imparare, grazie a Francesca (n.d.: psicologa di Koros), ora mi spingo a parlare e raccontare cose, grazie a Marco (n.d.: de La Nave di Carta), so fare i nodi nautici, grazie a Massimo (n.d.: comandante de I Tetragonauti) ho imparato le differenze dei fondali”.

Agnese, de I Tetragonauti, spiega che nel corso del mese trascorso su Oloferne, la barca de La Nave di Carta, Marco ha svolto lavori di routine in cantiere, ma ha anche accompagnato studenti e ragazzi con disabilità durante escursioni giornaliere. La difficoltà più grande è stata per lui proprio la conoscenza quotidiana di nuove persone, perché ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi con gli altri. Orgoglioso oggi di raccontare la sua storia, lui stesso ricorda la fatica ad aprirsi nei momenti di condivisione durante i “cento giorni”. In quell’occasione, durante la settimana di navigazione integrata prevista, aveva anche conosciuto ragazzi non vedenti e relazionarsi con loro era stato per lui una novità. 

Finito il mese con Nave di Carta Marco trascorrerà l’estate nuovamente con I Tetragonauti, svolgendo lavori su Inae (la nuova barca dell’associazione) e navigando con ragazzi con sindrome di down. Non ne ha mai conosciuti prima d’ora, una nuova avventura si prefigura all’orizzonte!

Fare rete come cura delle relazioni di comunità

Come cooperativa Il Calabrone da sempre lavoriamo accanto alle persone per costruire un futuro desiderabile per tutti, perché la bellezza del lavoro sociale sta proprio nel mettere le persone e i loro bisogno al centro del nostro pensiero e del nostro agire. Siamo una varietà di professionisti che cooperano ogni giorno per promuovere il bene comune e l’integrazione sociale dei cittadini, con particolare attenzione a chi sta attraversando un periodo di disagio, per promuovere la cultura del prendersi cura dell’altro, dell’accoglienza delle diversità e della giustizia: ingredienti fondamentali per costruire una comunità coesa e solidale.

Abbiamo a lungo riflettuto su cosa vuol dire “fare rete” per noi della Cooperativa Calabrone. Molte sono le domande legate a questo tema che ci poniamo nel nostro lavoro quotidiano: come facciamo in modo che le reti che costruiamo siano durature, superino i tempi contingentati di un progetto, riescano ad incidere significativamente sul territorio?

Anticipiamo che non abbiamo risposte certe, ma alcuni dei progetti a cui abbiamo contribuito in questi ultimi anni ci hanno permesso di mettere in campo sperimentazioni promettenti.

Vorremmo partire da due di questi progetti per provare ad offrire alcune riflessioni più generali: DAD Differenti Approcci Didattici (finanziato da Impresa Con i Bambini e Fondazione Cariplo, con capofila Fondazione della Comunità Bresciana), esperienza nata durante la pandemia di Covid 19 per affrontare la dispersione scolastica, e Tra Zenit e Nadir (finanziato da Impresa Con i Bambini, con capofila Istituto Don Calabria e partner CNCA), percorso di promozione della cultura riparativa.

Per alcuni versi questi due progetti sono molto diversi tra di loro: il primo riguarda l’ambito della formazione, mentre il secondo si rivolge ai minori autori di reato. Nonostante ciò, abbiamo rintracciato alcuni elementi comuni che ci interrogano sul nostro ruolo e su cosa significa “fare rete”.

Innanzitutto sono entrambi progetti che riguardano i giovani, se pure da prospettive diverse. In questi tempi in cui l’individualismo è culturalmente egemone si rischia di tornare a considerare il disagio giovanile come il frutto dei comportamenti devianti dei singoli, ma i ragazzi e le ragazze si nutrono in realtà di un contesto complesso che comprende i rapporti tra pari, quelli con gli adulti, con il territorio, con le istituzioni e quelli mediati dalla rete.

Intervenire dunque in questo contesto impone un approccio sistemico, dove gli accompagnamenti individualizzati si intrecciano con il confronto e la formazione rivolta a genitori, insegnanti, istituzioni per trovare nuovi modi di relazionarsi.

Un altro rischio, quando si affrontano tematiche legate ai giovani, è quello di un paternalismo implicito e involontario. Ecco che qui entriamo nel primo aspetto qualitativo del “fare rete”: i/le giovani non possono essere semplicemente utenti e fruitori di un servizio; se vogliamo che il nostro intervento duri e sia incisivo, allora devono essere partecipi e promotori della trasformazione. Dunque, il primo polo della rete non possono che essere loro, non come attori passivi del processo, ma come protagonisti. All’interno del progetto DAD uno degli assi portanti degli interventi è stato quello di valorizzare l’autonomia, la presa di responsabilità dei ragazzi e delle ragazze all’interno dei laboratori, degli Hub territoriali e delle scuole. Questo approccio ha permesso che le reti informali virtuali e reali tra giovani crescessero, si rafforzassero, trovando un loro spazio di azione pubblica comune. Non solo: l’accumulo di saperi, punti di vista e posture maturate nel rapporto con gli operatori e le operatrici, con le istituzioni ed il territorio più in generale ha contribuito alla durata di alcune esperienze nate in seno a DAD e proseguite dopo la fine del progetto.

Dunque, fare rete a volte vuol dire comprendere che è necessario aprire spazi di possibilità in cui le relazioni esistenti possano emergere e/o nuove relazioni possano costruirsi.

Ma il ruolo dell’adulto, degli operatori e delle operatrici, delle istituzioni e del territorio non scompare, anzi. Se i ragazzi e le ragazze sono al centro del nostro agire è l’intera comunità che deve prendersi carico della cura delle relazioni nuove che costruiamo. Nel progetto Tra Zenit e Nadir consideriamo il reato che il minore compie come una ferita per tutta la collettività, di cui la comunità è allo stesso tempo vittima e responsabile. Il lavoro di promozione della giustizia riparativa che facciamo vuole tendere a ricucire questa ferita, questo strappo. È un lavoro per certi versi culturale, atto a far comprendere che i comportamenti agiti dai ragazzi e dalle ragazze non sono slegati dal contesto in cui questi avvengono e dunque anche il lavoro di cura e di reinserimento non riguarda solo gli educatori ed i giovani coinvolti, ma l’intero territorio di riferimento. È qui dunque che diventa urgente un nuovo concetto del fare rete”, uno sguardo sistemico, dove i poli da attivare non sono solo quelli delle associazioni e delle cooperative che si occupano di giustizia riparativa. Crediamo che se è il territorio, la società nel suo intero a prendersi carico del minore autore di reato allora il rischio di una recidiva dopo il percorso di reinserimento sia molto minore; se favoriamo lo sviluppo di relazioni sociali e reti di supporto formali e informali forse riusciamo ad intervenire almeno in parte non sul fenomeno in sé, ma sulle sue cause.

Il fare rete, dunque, deve essere un atto trasformativo che interroga i nostri metodi di intervento, di cooperazione e confronto. All’interno di DAD i differenti approcci che abbiamo costruito non sono stati unicamente quelli educativi, ma anche nelle relazioni tra gli enti che partecipavano al progetto, che hanno colto la sfida di mettere in discussione metodi, relazioni e punti di vista non più in una dinamica competitiva, ma collaborativa e cumulativa di esperienze, saperi e domande diverse.

In conclusione, fare rete per noi oggi è favorire l’emersione e lo sviluppo di relazioni, di incontri, di possibilità e dunque di progetti, interventi e sguardi sulla realtà che siano trasformativi e che durino nel tempo, arrivando a marciare sulle proprie gambe.

Il potere delle vulnerabilità

Fondazione Arché Onlus accompagna i bambini e le famiglie vulnerabili nella costruzione dell’autonomia sociale, abitativa e lavorativa offrendo servizi di supporto e cura. Attraverso l’impegno di volontari e operatori, favorisce la cura dei legami familiari più fragili e lo sviluppo di una comunità più coesa e matura.

L’importanza del lavoro di rete per il benessere delle comunità

“È un super potere essere vulnerabili” canta Vasco Brondi, e queste parole risuonano profondamente quando si pensa all’importanza del lavoro di rete nel settore sociale. La vulnerabilità, spesso vista come una debolezza, può diventare una forza se supportata da una rete solida e interconnessa di enti e persone. Come Fondazione Arché, attraverso le nostre comunità mamma bambino, cerchiamo di rappresentare questa visione, dimostrando come il lavoro di rete possa trasformare vite e comunità.

Nel terzo settore il lavoro di rete tra vari enti è cruciale. La collaborazione tra organizzazioni non profit, istituzioni pubbliche, servizi sanitari, enti locali e altri attori del sociale crea un tessuto di supporto che amplifica l’efficacia degli interventi. Questo approccio collaborativo permette di affrontare le sfide sociali in modo più completo e integrato, rispondendo meglio alle esigenze complesse delle persone.

Ad esempio, nel contesto delle comunità mamma bambino gestite da Arché, il lavoro di rete con i servizi sociali garantisce che le madri e i loro bambini ricevano supporto continuativo e personalizzato. La cooperazione con le scuole, i servizi sanitari e altre organizzazioni del territorio facilita l’accesso a risorse essenziali e promuove il benessere complessivo delle famiglie coinvolte.

Oltre alle reti formali tra enti, le reti informali giocano un ruolo altrettanto cruciale. I legami di amicizia, familiari e di vicinato offrono un sostegno emotivo e pratico che completa l’intervento degli operatori professionali. Queste reti informali aiutano a costruire una comunità solidale, dove le persone si sentono connesse e supportate non solo da istituzioni, ma anche da relazioni personali significative.

In questo contesto il ruolo del volontariato emerge come fondamentale. I volontari non solo offrono tempo e competenze, ma creano anche legami umani preziosi, contribuendo a costruire un senso di appartenenza e comunità. Le storie delle mamme ospiti delle comunità Arché testimoniano spesso quanto queste relazioni possano essere trasformative.

Un esempio significativo della potenza del lavoro di rete è rappresentato dal recente caso di Anaya, una giovane madre africana di 23 anni. Anaya è arrivata a Milano dopo essere stata vittima della tratta. Accolta inizialmente in un centro Caritas in provincia di Lodi, è poi entrata in una Comunità di Fondazione Arché grazie ai Servizi Sociali comunali.

Appena arrivata in Comunità, Anaya era totalmente sfiduciata, e manifestava un comportamento aggressivo sia nei confronti delle altre mamme che degli educatori. Tuttavia, grazie all’assiduo lavoro di rete, Anaya ha iniziato un percorso di trasformazione che l’ha portata a crescere una maggiore fiducia in sé stessa e negli altri, pur mantenendo un carattere non semplice. Parallelamente, sua figlia Jamila, di 8 anni, che inizialmente non parlava e a tavola si limitava a indicare le posate, è stata seguita da un Servizio pubblico di neuropsichiatria infantile, ricevendo anche un prezioso supporto nei compiti da una nostra storica volontaria. Il ruolo dei volontari si è rivelato fondamentale nel garantire a Jamila un sostegno continuativo e personalizzato, aiutandola a diventare molto più socievole.

Parallelamente, una nostra educatrice ha fornito ad Anaya un importante supporto nel percorso di formazione e successivamente nella ricerca di un lavoro. Questo ha permesso ad Anaya di ottenere un impiego stabile in un laboratorio dolciario, un traguardo che ha recentemente festeggiato con la firma di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Contestualmente, Jamila ha ottenuto una promozione a pieni voti, segno del suo grande impegno e delle cure ricevute.

Questo successo è il risultato di un’efficace rete socioeducativa, dove diversi soggetti hanno collaborato sinergicamente per supportare Anaya e Jamila nel loro percorso verso l’autonomia. Ogni ingranaggio di questa rete, dalle istituzioni ai volontari, ha giocato un ruolo cruciale, dimostrando come l’unione di forze e competenze diverse possa davvero fare la differenza nella vita delle persone.

Il lavoro di rete, sia formale che informale, costruisce un welfare societario e comunitario che rende le città luoghi più coesi e solidali. Questa costruzione di solidarietà avviene sia nei piccoli centri che nelle grandi città come Milano, che, pur nella sua vastità, è un insieme di quartieri che possono diventare comunità vive e interconnesse.

Dalla Maggiolina a Quarto Oggiaro, due quartieri meneghini, l’esperienza di Arché dimostra che è possibile creare reti di supporto efficaci e umane anche in un contesto urbano complesso. La vulnerabilità, come suggerisce Vasco Brondi, diventa così un punto di forza quando viene accolta e sostenuta da una rete di relazioni solide e collaborative.

Il lavoro di rete è essenziale per costruire una società più giusta e inclusiva. Le reti tra enti del terzo settore, servizi sociali, volontariato e legami informali tra persone contribuiscono a creare un welfare comunitario che rende le città luoghi più accoglienti e solidali. Vorremmo esserne testimoni, superando gli egoismi che purtroppo ancora incrostano anche il terzo settore, dimostrarlo con il nostro impegno quotidiano, mostrando che insieme si può fare, davvero, la differenza.

Simone Zambelli
Fondazione Arché

Tante foto per mostrarela bellezza della diversità!

Cosper è una cooperativa sociale nata dalla fusione di tre storiche cooperative: Ginestra, Iride e Prontocura. Diamo risposte concrete ai bisogni delle persone, offrendo servizi per i minori e le loro famiglie, gli anziani e le persone non autosufficienti, creando reti di supporto sul territorio di Cremona.

Lavorare in rete significa fondarsi sul senso di corresponsabilità che deve accomunare i soggetti che incontrano e si interfacciano con le famiglie, in particolare quelle vulnerabili. Per questo è fondamentale progettare in modo che le famiglie non si sentano frammentate tra i vari servizi, bensì accompagnate in modo integrato da tutti gli attori del territorio che hanno un compito rispetto al loro sostegno.

Il confronto continuo costruisce relazioni funzionali rispetto ai progetti di vita delle famiglie e la comunità deve essere intesa come una trama (rete) di servizi che mette a disposizione risorse per mobilitare i potenziali o interrompere cicli di svantaggio sociale.

Siamo animali sociali

La Fondazione Somaschi, da oltre 500 anni, sull’esempio di San Girolamo Emiliani, offre accoglienza e aiuto alle persone più vulnerabili. Ai Padri Somaschi si sono aggiunti, nel tempo, educatori e volontari e nel 2011 è nata Fondazione Somaschi.

L’uomo si realizza attraverso le relazioni con l’altro e questo aspetto sta alla base di ogni tipo di azione pedagogica orientata in primo luogo alla persona.

Nasciamo e ci muoviamo nel mondo, fin da piccoli, con la necessità di creare reti e legami formali e informali che ci permettano di realizzare i nostri obiettivi di vita, personali, lavorativi,… Risulta quindi impensabile procedere e raggiungere risultati senza che ognuno possa concorrere con il proprio bagaglio di esperienze, strumenti e risorse.

Chi lavora nel sociale conosce molto bene la parola “rete”, che in senso stretto e professionale può essere definita come l’insieme di servizi che hanno in carico la persona che per un motivo o per l’altro si trova a dover affrontare anche un momento della vita di enorme complessità. Di uguale importanza parliamo di “rete” anche riferendoci a un contesto più informale, famigliare, amicale e di supporto interpersonale.

Sarebbe tuttavia da interrogarsi su diversi aspetti: in primo luogo la rete informale dovrebbe essere considerata di pari importanza a quella formale. Non è sufficiente infatti fornire strumenti se poi l’individuo si trova a gestirli nella propria solitudine e abbandono. La cura dell’individuo nella sua totalità, che tende a un concetto di benessere, non può prescindere dalla cura del contesto e dalle relazioni in cui poi si trova inserito; quante volte ci siamo resi conto che la solitudine danneggia le persone, ancora di più di un problema economico o di mancanza di risorse concrete.

Il concetto di rete non deve però essere solo la somma di professionisti e istituzioni che mettono in campo servizi, risorse e strumenti, che mantengono il proprio campo di intervento e la specifica responsabilità, bensì si dovrebbe sempre più tendere a considerarsi come un corpo unico che interagisce per raggiungere la forma migliore di supporto in ottica di lavoro condiviso e progettualità.

In un mondo in cui la solitudine e l’individualismo sono alla base delle problematiche psicosociali di una persona, diventa questo il focus centrale nell’intervento di rete e di attenzione e cura.

Martina Ziglioli
Responsabile Casa Rifugio Antigone
Fondazione Somaschi Onlus

L’esperienza della rete nel Centro Diurno Diffuso di Arimo

Arimo è una cooperativa sociale fondata nel 2003. Accoglie e accompagna verso l’autonomia lavorativa, abitativa, relazionale, emotiva, adolescenti in difficoltà. Gestisce comunità e appartamenti educativi per neomaggiorenni e per genitori e figli, realizza percorsi per l’inserimento lavorativo e attività di consulenza e formazione pedagogica.
Le sue attività sono tutte ispirate dal proposito di rompere il cerchio di un destino già scritto da contesti sociali emarginanti o da esperienze di fallimento e sopruso, per ristabilire diritti e per promuovere nei giovani il senso di responsabilità verso se stessi e verso la comunità.

Come Arimo abbiamo sempre considerato fondamentale, a livello educativo, il rapporto con la realtà – e dunque con la rete delle possibili relazioni territoriali – in quanto promotore di trasformazione e cambiamento. La dimensione sociale, quella della vita reale, è fondamentale per realizzare progetti che riescano a intercettare bisogni e problematiche degli adolescenti, agevolando o sbloccando il loro processo evolutivo,

In questa direzione, abbiamo ideato e stiamo sperimentando da qualche anno un servizio innovativo di presa in carico dei ragazzi a rischio di marginalità, servizio che nel lavoro di rete ha il punto di forza della sua visione e azione pedagogica: il Centro Diurno Diffuso – CDD (avviato all’interno del progetto Tra Zenit e Nadir sulla giustizia riparativa, finanziato da “Con i Bambini”).

Il nostro intento è quello di fare sintesi tra la non residenzialità dell’azione educativa e un’idea di intervento diurno e diffuso sul territorio, realizzato in un ambito sociale, attraverso un lavoro svolto con il coinvolgimento di una pluralità di attori.

Felipe

Felipe è uno dei molti ragazzi accolti. È arrivato da noi quando aveva diciassette anni. Nato in Italia, di origine sudamericana. Alto, forte, dava un’impressione di grande potenza fisica, alla quale però corrispondeva una altrettanto marcata fragilità e vulnerabilità interiore. È stato segnalato al nostro Centro dal Servizio sociale del Tribunale per i Minorenni di Milano.

Aveva commesso un reato pesante, una rapina aggravata, e aveva trascorso diversi mesi al carcere minorile Beccaria, prima di ricevere un provvedimento di messa alla prova.

Era stato disposto un collocamento in comunità. Felipe ha provato il dispositivo comunitario per due volte, senza riuscire a reggerlo. Si è fatto espellere entrambe le volte, mettendo in atto comportamenti aggressivi, rendendosi responsabile di illeciti, scatenando risse e rifiutando regole. Provocava gli educatori, rispondeva male, scappava, faceva costante uso di cannabinoidi, risultando sempre positivo ai test. La comunità educativa, in altre parole, non era lo strumento adatto per promuovere un suo recupero e raggiungere l’obiettivo pedagogico e giuridico della messa prova.

Perché il Centro Diurno Diffuso per Felipe

Felipe se ne andava dalla comunità e tornava a casa. La sua famiglia non poteva garantire da sola un presidio educativo. Il nucleo familiare, in quel momento, viveva in un contesto di housing sociale.

Felipe era una testa calda, se si può dire così. Un fratello maggiore in carcere, una sorella più grande con problemi psichiatrici e un fratello minore con una diagnosi di autismo. Una situazione molto difficile. Il padre un ingombrantissimo assente, lo ha anche cacciato di casa, insieme alla mamma, costringendoli per un periodo a vivere di espedienti.

La madre è una donna con grandi problemi di gestione del quotidiano. Felipe con lei ha un rapporto simbiotico. Hanno affrontato insieme le difficoltà più estreme.  Il legame di co-dipendenza con la madre era troppo forte perché Felipe potesse accettare il collocamento in comunità. Ha messo in atto tutto quello che era in suo potere per far fallire il progetto e tornare a casa da lei, unico tra i fratelli in grado di aiutarla, il solo che potesse “salvarla” – e lei, da parte sua, faceva affidamento su questo.

Il percorso di recupero stabilito dal Tribunale aveva bisogno di uno strumento diverso, più flessibile e allo stesso tempo più forte, per agganciare e sostenere la motivazione di Felipe. Il ragazzo doveva sentirsi non vincolato da una struttura così rigida come la comunità e vivere da protagonista le nuove esperienze che doveva affrontare. Su questo bisogno di autonomia si può far leva, educativamente, per generare responsabilità.

L’avvio del progetto

Felipe ha espresso da subito il bisogno di lavorare. Lavorare, guadagnare. Ha espresso anche il desiderio di riprendere a studiare. Ci ha poi spiegato che aveva commesso reati solo per soldi, spinto dal bisogno di un periodo di stenti, con la madre disoccupata.

Felipe aveva un grosso problema di gestione della rabbia e delle emozioni, una cosa su cui tutti gli attori coinvolti nel suo progetto hanno da subito iniziato a lavorare.

Il percorso

Il percorso di Felipe presso il nostro Centro è iniziato con un orientamento, sia sulla parte scolastica che su quella lavorativa. Mentre era rinchiuso al Beccaria, aveva partecipato a un corso di caffetteria. Dichiarava ambizioni molte alte, voleva addirittura diventare medico. Ma abbiamo deciso di partire da lì, dall’attività di barista, per vedere come avrebbe reagito.

Abbiamo trovato un esercizio adatto a lui, con un titolare molto presente, una figura caratterialmente importante per affidabilità, senso di sicurezza. Speravamo che Felipe si agganciasse a lui. All’inizio con le figure maschili aveva un grosso problema di fiducia, ma con quell’uomo è entrato subito in una relazione positiva. Un tirocinio che doveva durare due mesi in realtà è proseguito per sette mesi. Quel locale è stato una sorta di porto sicuro per il ragazzo.

La rete e i primi cambiamenti di Felipe

La rete di persone e organizzazioni che hanno lavorato con Felipe era composta dagli operatori istituzionali e da quelli attivi sul territorio. Il Servizio sociale, la psicologa, il Sert, gli educatori domiciliari, la scuola, gli imprenditori dei tirocini e noi del Centro. Tutti fortemente coinvolti nel progetto e in relazione tra loro.

All’inizio c’era anche un professore di riferimento nella scuola che Felipe aveva voluto tentare, un istituto a indirizzo commerciale, progetto poi abbandonato perché quella scuola era troppo impegnativa per poter essere gestita contemporaneamente al lavoro. Ora è iscritto a un corso da barman, ha sostenuto un colloquio per un nuovo tirocinio in un locale, questa volta sostenuto da una borsa lavoro. Con la prospettiva di essere finalmente in grado di aspirare a un’assunzione stabile.

Come funziona la rete

Il regista è sempre l’assistente sociale. Periodicamente facciamo degli incontri con tutti gli attori coinvolti, per avere uno sguardo sul ragazzo da prospettive differenti, valutare i risultati, ridefinire gli obiettivi. È uno scambio molto positivo.

Sentiamo regolarmente l’educatrice domiciliare, la psicologa, ovviamente l’assistente sociale e il datore di lavoro. Ci aggiorniamo costantemente. L’assistente sociale guida un progetto comune che viene portato avanti su più fronti. Ci confrontiamo con la psicoterapeuta. Che cosa sta emergendo? Quali sono le difficoltà che Felipe riporta e che potrebbero avere un valore anche rispetto al lavoro, alla scuola? E per il servizio domiciliare, invece: quali sono i temi legati alla famiglia che stanno emergendo? E quali sono i temi del lavoro, della scuola che possono essere connessi agli altri aspetti del percorso?

Inizialmente Felipe non realizzava la gravità di quello che aveva fatto. Non esprimeva minimamente né rimorso né senso di colpa. Non aveva la capacità di mettersi nei panni della vittima.

A un certo punto, però, entrando in relazione con altre persone, sia a scuola che, soprattutto, al lavoro, ha iniziato a riflettere e maturare. Sul posto di lavoro sono sorti momenti di confronto sulla reciprocità: quando fai qualcosa a qualcuno, devi pensare che quell’altro potresti essere tu.

È stato un punto di partenza che ha permesso a Felipe di iniziare a immaginare se stesso in altri ruoli, oltre a quello che aveva da sempre avuto. Questo sforzo di mettersi nei panni degli altri ha dato i suoi frutti, gli ha permesso di immaginare cosa significa avere a che fare con una persona che si approfitta della tua debolezza e, questo, lo ha portato a ripensare anche al suo ruolo nei contesti di marginalità che lo avevano portato al reato.

Tra poco andrà a lavorare in un nuovo bar. Gli è piaciuto molto il titolare, un ragazzo che si è fatto da solo. Abbiamo scelto per lui aziende guidate da persone che possono fargli un po’ da esempio. Persone che hanno messo su un locale da soli, non con i soldi di famiglia. Si sono date da fare, hanno fatto sacrifici per arrivare dove sono. Felipe è uscito dal colloquio dicendo: “Pensa che bello se un giorno io riuscirò ad aprire il mio locale e tu potrai portarmi dei ragazzi messi male come me, per fare delle esperienze e cambiare vita”.

Sempre sul piano della riparazione, Felipe all’inizio ha svolto attività di volontario con i ragazzi disabili al CRH. Ha fatto un accompagnamento ai ragazzi disabili, lui che ha un fratello disabile e una sorella con disagio psichico. Ha capito da subito che proprio per questo era importante che lo facesse.

Forse adesso sarebbe anche pronto a un incontro di riparazione con la vittima.

Tutto questo, siamo convinti, è il frutto di un dispositivo come il CDD che non si occupa solo di lavoro, di scuola, di orientamento, ma integra tutte le varie componenti che riguardano il percorso evolutivo di un giovane autore di reato, inserendolo in un tessuto sociale nuovo, fatto di relazioni significative. Affrontiamo la fragilità interiore con la psicoterapia e, allo stesso tempo, interveniamo sulla gestione della rabbia iscrivendolo a un corso di boxe. Gli effetti delle varie componenti del percorso e delle azioni dei diversi attori della rete si riversano sulle altre.

Felipe da poco ha fatto il passaggio agli appartamenti per l’autonomia. Il suo obiettivo ora è stabilizzarsi sulla parte lavorativa. Una volta che ci sarà riuscito, capiremo se ci sono margini per riprendere anche il percorso scolastico.

Il rapporto sviluppato sul territorio, in una relazione senza filtri con la realtà, ci ha consentito di vedere Felipe in forma molto libera, e a lui di vedere in modo molto libero noi e gli altri protagonisti del suo percorso. Sta facendo un’esperienza diretta del senso migliore della vita sociale, gettando le basi per quando dovrà viverci in piena autonomia.

Alberto Dal Pozzo, responsabile della comunità Terzo Spazio e del Centro Diurno Diffuso di Arimo

Lia Ferrario, tutor per l’autonomia di Arimo