Sempre più spesso si parla di giovani e di periferie associandoli al degrado e alla violenza. In questi giorni la stampa nazionale riporta la notizia di un ragazzo aggredito a Bologna da tre coetanei che lo hanno accerchiato e picchiato alla fermata dell’autobus, e la storia di una sedicenne torinese violentata dal compagno. Ma perché avvengono questi episodi e cosa si potrebbe fare di diverso per proporre alternative concrete a ragazzi e ragazze?
Per comprendere il fenomeno, CNCA Lombardia – federazione che raggruppa 45 gruppi aderenti – ha promosso lo scorso 13 novembre il secondo seminario del Laboratorio dipartimentale di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa”, dal titolo “Spingere lo sguardo oltre. Migrazioni, intersezionalità e giustizia sociale”.
Da questo confronto è nato un tavolo di riflessione aperto, a cui hanno partecipato i membri del CNCA Lombardia:
- Matteo Avalli, presidente e direttore sviluppo di Fuoriluoghi SCS;
- Raffaella Fantuzzi, coordinatrice della comunità di pronta accoglienza di Fondazione Asilo Mariuccia;
- Luca Sansone, educatore del centro di aggregazione giovanile Cde Creta e coordinatore QuBì Municipio 6.

Giovani, periferie e politiche pubbliche
Nel corso della discussione, Luca Sansone ha ricordato come i giovani che vivono nei quartieri popolari partano da una condizione di forte svantaggio, causata dal progressivo disinvestimento delle politiche pubbliche.
«Da decenni non si vedono interventi di ristrutturazione degli alloggi pubblici, le case popolari restano vuote e non vengono assegnate, la segregazione scolastica è sempre più presente e il costo della vita a Milano è insostenibile per molti. Tutto questo ha ovviamente delle ripercussioni su famiglie e giovani».
È quindi fondamentale, osserva Sansone, rafforzare interventi integrati a regia pubblica, sviluppando sistemi di governance territoriale a livello di quartiere.
Una possibile risposta per i giovani delle periferie è garantire proposte educative continue nel tempo, e non interventi episodici o “vetrina” che rischiano di abbandonare rapidamente ragazzi e ragazze alla situazione di partenza.
Servono invece luoghi educativi stabili, caratterizzati dalla presenza costante di adulti responsabili, capaci di ascoltare, contenere e permettere la sperimentazione, affinché i giovani possano ampliare i propri orizzonti e incontrare modelli educativi alternativi.
Accoglienza, fragilità e salute mentale
Alla discussione ha contribuito anche Raffaella Fantuzzi, portando il punto di vista della comunità di pronta accoglienza di Fondazione Asilo Mariuccia.
«Il contesto della comunità per mamme con bambini è un osservatorio privilegiato, perché consente di comprendere meglio la storia di vita della persona, della famiglia e il progetto migratorio, laddove siano presenti persone non italiane».
Sempre più spesso, spiega Fantuzzi, vengono accolte donne fortemente provate dalle difficoltà economiche, da situazioni abitative sovraffollate e di promiscuità. Molte hanno subito violenza domestica e la separazione dal partner maltrattante comporta un costo emotivo altissimo, poiché implica una rottura totale anche con il contesto familiare allargato.
Tutto questo ha inevitabili ripercussioni sui figli, che hanno assistito alla violenza del padre verso la madre e non sempre riescono a problematizzare quanto accaduto.
Negli ultimi anni, inoltre, emergono sempre più problematiche psichiatriche, spesso non adeguatamente prese in carico, per le quali l’unica risposta offerta è talvolta la massiccia prescrizione di psicofarmaci.
Educazione, politiche restrittive e alternative possibili
Un’analisi condivisa anche da Matteo Avalli, presidente e direttore sviluppo di Fuoriluoghi SCS, che ha sottolineato come nel periodo post-Covid siano emerse fragilità soprattutto sul versante psicologico e dell’abuso di sostanze, in un contesto in cui gli interventi educativi non sono integrati con il sistema sanitario e le politiche pubbliche privilegiano approcci restrittivi e punitivi.
«Il decreto Caivano rappresenta l’esempio di una politica sempre più distante dalle logiche pedagogiche. Il daspo sociale, applicato anche a minorenni segnalati per almeno due volte, comporta l’impossibilità di accedere ai plessi scolastici, ai luoghi di aggregazione e agli spazi pubblici».
Il messaggio, osserva Avalli, è chiaro: a chi fatica a vivere la socialità in modo positivo viene negata la possibilità di sperimentarsi ed essere sostenuto nei luoghi della quotidianità, escludendolo ulteriormente dalla società, senza prevedere reali processi di risocializzazione.
L’azione educativa dovrebbe invece sostenere il ragazzo anche nell’errore, accompagnarlo e aiutarlo ad affrontare le dinamiche che lo portano a sbagliare, affinché possa vivere il contesto con maggiore consapevolezza e capacità di analisi. Diventa quindi necessario creare sinergie nei luoghi educanti, favorendo la partecipazione attiva e lo scambio continuo tra tutti gli attori coinvolti.
